Mosso a terrore di perdere la vita così malamente pericolante, con queste parole si rivolse il topolino al gattone, vecchio e tenebroso, perchè pure del tutto nero:
"O gatto, fammi vivere. Non vedi quanto sono piccolo e leggero? Non soddisferai certo la tua fame, tu che sei così grosso e forte, con una inconsistente carcassa quale la mia miseranda. Se mi farai andare non ci perderai certo molto. E devo pure confessarti che sono pure molto povero e malaticcio, di salute assai cagionevole e parecchi debiti in saccoccia. Fammi andare, a ben considerare, la mia natura e la tua, si può pure dire che non ci perderai nulla. Sono un semplice stecchetto, mal indigesto e anche un pò maleodorante e sporco".
Il gattone, che lo aveva artigliato ben a dovere con la sua possente zampona, così gli disse allora:
"O topo, penso proprio che tu abbia un gran concetto di noi gatti che non corrisponde affatto a verità. Devo convenire che hai parlato bene, con rigore di logica e di corollario. Devo convenire che tutto sommato hai pure ragione. Non soddisferai per nulla la fame di un grosso bestione come me,
puzzi, e certo posso pure prendere una brutta malattia se sei infetto di qualche dannazione, se ti divoro. E certo forse tutto è contro i miei stessi interessi pure se ti mangiassi. E quindi il tuo ragionamento non fa proprio una grinza, e perfino il buon senso e la giustizia è dalla tua parte. Ma vero è pure che non ho mai sentito in vita mia che un gatto lasciasse andare via un topo, anche se tutti gli argomenti di questo mondo e l'altro gli stessero contro. E così ti dico che sono un gatto e, ahite, ragiono come un gatto e non come un topo, anche se avesse dalla sua parte tutta la ragione dell'universo".
E così detto addentò sulla testa il povero topolino e se lo divorò in un baleno.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
da "GATTI PAZZI", Acquaviva, 2013
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