PAOLA BOTTO
un racconto
Non so se lui potesse definirsi
semplicemente un libraio.
Né se libreria poteva dirsi quella
bancarella traballante allestita quasi con protervia in faccia al megastore di
un arcinoto gruppo editoriale.
Poche spanne verde mela su cui si
impilavano uno sull’altro i suoi libri colorati, insolenti e spavaldi, tanto da
sembrare vivaci scolaretti che si spintonano allegramente per raggiungere la
prima fila e lasciarsi ammirare dagli occhi di chi passa.
Filosofia, poesia, un po’ di
Oriente, raccolte imperdibili di haiku giapponesi, libri minori di grandi
autori indimenticabili, Joseph Roth, Franco Fortini, Robert Frost, persino
poesie di Nietzsche e scritti letterari di Raffaello. Grandi opere che
l’editoria ufficiale snobbava da tempo, e che quel libraio/editore ambulante
tirava fuori dal cilindro magico della sua passione e della sua perizia
artigiana.
Copertine dipinte a mano su una
spessa carta fuori moda, in alcuni casi battuta ancora a macchina, pagine e
pagine che raccontavano tutte di un amore smisurato per la poesia e la
letteratura, con qualche refuso qua e là che nessun correttore di bozze avrebbe
mai visto, esposte con sfrontata baldanza di fronte a quella potenza indiscussa
dell’editoria che le stava di fronte, due o più piani di grandi bestsellers
internazionali dalle copertine lucide e patinate.
Un banchetto di un metro o poco più
nel bel mezzo di una grande piazza di una grande città.
Per lui forse la definizione di
libraio sarebbe stata troppo, o forse troppo poco.
L’unica certezza è che dalle maglie
della sua rete di pagine scritte io sarei rimasta imprigionata, e che ancora
una volta si stava compiendo nel mondo degli uomini quello strano sortilegio
che la letteratura, spesso, sa imbastire.
In quei giorni mi sentivo agitata da
“astratti furori”, ingurgitavo romanzi e racconti alla ricerca di qualcosa che continuava
a sfuggirmi, uscivo dalla lettura di qualche grande classico russo come si esce
da un corpo a corpo, mi buttavo con ardore nella meraviglia della letteratura
americana per riprendere il respiro, mi immergevo nella balzacchiana commedia
umana come un soldato al fronte, e di tutte quelle pagine ardenti mi innamoravo
ogni volta con rinnovata passione.
Ero sempre stata una divoratrice di
storie, nella mia vita di lettrice avevo mescolato Tex Willer a Jack London,
Philip K. Dick a Tolstoj, la lettura aveva sempre rappresentato un sottofondo
musicale senza il quale la mia giornata stentava a trovare il ritmo, ma era dai
tempi dell’adolescenza che non assumeva per me l’esatta misura dell’esistenza.
Assieme a questa bulimia letteraria,
a me non nuova, c’era qualcos’altro poi che al mio interno assumeva le
connotazioni di un richiamo.
Continuavano a farsi strada ricordi
sepolti dell’infanzia, il rapporto mai risolto con mio padre, il dolore mai del
tutto espresso per la sua morte, per la quale provavo un vago senso di colpa, e
di risentimento. Sentivo forti dentro di me i richiami del sangue, cercavo
tracce di nonni mai conosciuti e conducevo ricerche genealogiche. Cercavo nelle
soffitte vecchie foto e documenti senza sapere a cosa attribuire la strana inquietudine
che mi abitava.
Solo molti mesi dopo ne avrei capito
l’esatta ragione. “Era questo, allora”, mi sarei detta, arrendendomi alla sua
logica ineluttabile.
Ma il giorno in cui mi imbattei
nella bancarella verde il mio destino aspettava tranquillo, dandomi il tempo di
trovare il modo di regolare i miei conti.
Mi aggiravo un po’ spaesata in
quella piazza enorme, avevo a disposizione un’oretta scarsa e volevo dare la
classica occhiata veloce ai negozi.
Subito non lo notai.
Era stata l'insegna di quel grande
magazzino librario ad attirarmi, come sempre per me più allettante dei tanti
negozi di moda nei dintorni, ma quando arrivai a pochi passi dall’entrata il
mio sguardo fu attratto da un banchetto posto a pochi metri di distanza, pieno
zeppo di libri multicolori, insoliti e seducenti.
Mi avvicinai con la curiosità e il
rispetto che provo sempre di fronte alla pagina scritta.
Tra tanti titoli più o meno
conosciuti ne individuai uno che qualche mese prima avevo cercato invano nella
libreria presso la quale solitamente mi rifornivo.
Lo presi in mano studiando quella
strana edizione dall’aspetto così inconsueto, lo sfogliai, me lo rigirai
dubbiosa tra le mani. Era un libricino di poche pagine, la quarta di copertina
riportava scarne parole dal significato quasi criptico, e all’interno riportava
schizzi e illustrazioni molto suggestive.
A quel punto fu l’anomalo libraio a
venirmi in aiuto.
“Ti interessa Dostoevskij? Quello è
un breve racconto, ho anche romanzi giovanili, racconti lunghi. Ho molte cose
che lo riguardano.”
Da uno sgabellino minuscolo posto
dietro alla bancarella si era alzato un uomo altissimo, sulla sessantina, con
una folta barba brizzolata, profondi occhi scuri sorridenti e mani enormi.
Sembrava un antico filosofo, o un
pazzo scatenato.
Gli dissi che si, ero interessata al
vecchio Fjodor, di cui avevo letto parecchio ma non tutto, e quell'omone dalle
grandi mani si mise a rovistare dentro a una vecchia borsa a rotelle posta
dietro al banco.
Altri ne aveva a casa, mi disse, e
mi spiegò in poche parole quanto fosse difficile quella strana vita di libraio
di strada, impossibilitato com’era a trascinarsi dietro tutta la mercanzia di
cui disponeva. La sua voce era profonda, calma, gentile, e cominciai a
considerarlo più filosofo che pazzo scatenato.
Confessò di averla davvero una
laurea in filosofia, e di aver studiato a lungo le tematiche che ricorrono
negli scritti del grande narratore russo, di averne studiato la vita, più
appassionante dei suoi romanzi, di aver approfondito tutto il suo pensiero, e
di essersi convinto che fosse un grande umanista. Parlammo a lungo della Russia
zarista, del romanticismo ottocentesco da cui non ci si fosse mai veramente
allontanati, dell’umanesimo italiano, erede del pensiero classico e fonte
ispiratrice di tutta la cultura occidentale. E ovviamente facemmo qualche
battuta sul cinismo imperante dei nostri tempi, quasi ci sentissimo reduci di
un passato più coinvolgente e appassionante.
Tutto questo mi riportava a mio
padre, vecchio socialista di altri tempi che aveva sacrificato tanto di sé alla
passione politica e all’amore verso un’idea tanto bella quanto irrealizzabile.
Lasciai la bancarella tra una
chiacchiera e l’altra col mio “Il contadino Marej” in mano e la promessa di
tornare. Impegni di lavoro mi avrebbero trattenuto in quella città per tutta la
settimana e l’idea di una nuova chiacchierata mi stuzzicava.
Lessi il racconto quella sera
stessa. Era un racconto semplice, bellissimo, commovente come tutta l’opera di
Dostoevskij, e mi aveva lasciato una sensazione di serenità e di dolcezza come
da tempo non provavo. Mi colpì molto.
Tornai alla bancarella la sera dopo,
decisa ad affidarmi a quello che ormai consideravo il mio libraio di fiducia.
L’uomo altissimo era ancora la’,
posto in piedi dietro alla bancarella verde, e nello scorgermi dal suo barbone
incolto spuntò un sorriso.
“Allora, come t'è sembrato il
raccontino?”
Gli spiegai quanto mi avesse
colpito, che sensazioni mi aveva lasciato, il mio stupore nel constatare quanto
un libricino di così poche pagine fosse riuscito a scavarmi dentro e a
risvegliare in me sensazioni dimenticate.
Parlammo ancora a lungo, chiesi conto
di quelle illustrazioni, scoprii che anche quelle erano opera sua.
Parlammo di vita e di libri, di
relazioni umane e di letteratura, gli parlai anche delle strane ansie che da un
po’ abitavano la mia anima, e vidi il suo sguardo profondo farsi più attento.
“Se ti va, potresti dare una letta a
qualcuno di questi libri, li ho scritti io. Una semplice narrazione sulla vita
e l’opera di Dostoevskij, sono scorrevoli, niente di troppo cattedratico, se ti
appassiona lo scrittore potrebbero piacerti.”
Mi lasciai convincere facilmente, io
che non leggevo quasi mai niente che non fosse narrativa pura, e me ne tornai
all’albergo con un libretto autoprodotto che faceva parte di una serie di nove,
ognuno riguardante una parte della vita e dell’opera dello scrittore russo.
“Se scrive come parla”, pensai, “con
quel tono serafico e gentile che ti accarezza i sensi, non dovrei faticare a
trovare il ritmo giusto”.
Quella sera spensi tardi la luce sul
comodino, e lo stesso feci le sere successive. Qualcosa era scattato, durante
una normale trasferta di lavoro, tra le corde della mia anima, e più leggevo le
pacate elucubrazioni di quel libraio/editore/narratore più sentivo qualcosa
risvegliarsi dentro. Mi sembrava che finalmente le tessere di quel disordinato
puzzle interiore che avevo da qualche tempo iniziato a ricomporre cominciassero
ad andare a posto.
Valori umani che avevo in un certo
senso accantonato, ideali e passioni che avevano alimentato le mie speranze
giovanili, il continuo richiamo a concetti che mi riportavano a mio padre e
alle delusioni che lo avevano tormentato negli ultimi anni della sua vita,
tutto quello che leggevo in quelle pagine mi dava l’impressione che fosse stato
scritto esclusivamente per me.
Mi svegliavo al mattino con
un’energia nuova, uscivo, prendevo i mezzi per raggiungere il posto di lavoro,
mi dedicavo ad esso con la solita diligenza, ma con qualcosa dentro che mi
rendeva più tranquilla ed appagata.
Quando tornai in cerca del mio uomo,
dopo aver finito il libro, non lo trovai.
Mi guardai intorno smarrita, la
grande piazza con i suoi strani abitanti era la stessa di sempre, ambulanti,
musicisti, passanti infreddoliti, la solita disordinata e indifferente umanità,
ed io sembravo l’unica ad avvertire il vuoto generato dall’assenza della bancarella
verde.
Il pittore che vendeva acquarelli
qualche metro più avanti doveva essersi accorto del mio turbamento, e mi fece
un cenno affinché gli dessi ascolto.
“Se cerchi i libri, in questi giorni
ha cambiato lato, devi girare l’angolo. È davanti al Burghi, o giù di lì.”
Ringraziai e mi diressi nella
direzione indicata. Per qualche istante avevo temuto di non vederlo più.
C’erano parecchie cose di cui volevo parlargli.
Potei farlo dopo poco, davanti al
Burghi e alla sua clientela chiassosa, come aveva detto il pittore, chiasso di
cui l'omone dalle grandi mani e dalla folta barba sembrava non preoccuparsi
minimamente.
Con la sua solita tranquillità
ascoltò le mie considerazioni, sorrise del mio stupore nel vedere confermate
dalle sue parole idee e sensazioni che risiedevano nelle profondità della mia
coscienza, e che lui sembrava aver disincagliato come un pescatore che con
pazienza libera l’amo rimasto impigliato tra gli scogli. Ora restava a me
tirare la lenza, ma certo il suo aiuto era stato determinante.
Gli parlai anche di mio padre, gli
raccontai cose che forse non ero mai riuscita a raccontare neanche a me stessa.
Lui non sembrava né particolarmente
lusingato né troppo colpito da quel fiume di parole, sorridendo mi consigliò di
lasciarmi indietro rancori e risentimenti, e considerare soltanto se quell’uomo
che mi aveva dato la vita mi avesse voluto bene o no, che solo questo contava.
Tutto questo succedeva un giorno
qualsiasi in una grande piazza di una grande città, in mezzo al vociare di
ragazzi schiamazzanti davanti ad una paninoteca e al flusso continuo di
passanti in fila davanti alle vetrine.
Andai via con un nuovo libro, il
giorno dopo sarebbe stato l’ultimo in quella città, e molto avevo ancora da
scoprire.
Il libro che mi portai a casa e che
divorai in pochi giorni riguardava “L’idiota” e le difficili circostanze legate
alla sua stesura, e quello che scoprii leggendolo mi avvicinò ulteriormente e
in maniera definitiva a quella che ormai consideravo la meta della mia ricerca:
la risoluzione di rapporti famigliari da tempo insoluti.
Mi è difficile spiegare esattamente
cosa intendo, ma il fatto sorprendente è che da quel momento io mi sentii
finalmente in pace con me stessa, e la mia ricerca spasmodica tra le maglie
della letteratura ebbe per il momento termine.
All’inizio dell’estate da un normale
controllo di screening mammografico risultò che avrei dovuto essere operata al
più presto, operazione a cui sarebbero seguiti qualche ciclo di chemio e
radioterapia.
La cosa mi colpì come una mattonata
in testa, ma non posso dire che in fondo non me la fossi aspettata. La malattia
era stata del tutto silente da un punto di vista fisico, ma di certo non da quello spirituale.
Alla fine dell’autunno dovetti
tornare per qualche giorno nella grande città, questa volta per motivi di
salute, e feci in modo di tornare nella grande piazza in cerca del mio libraio
di strada.
Quante cose avevo da dirgli!
Ma non c’era alcuna bancarella verde
davanti al megastore editoriale, e nemmeno girato l’angolo davanti al Burghi.
Passai in rassegna tutti gli ambulanti della zona, sapendo che spesso sono
costretti a cambiare posizione, ma del mio amico dalla folta barba non c’era
traccia.
Finalmente trovai però il banchetto
del pittore con i suoi acquarelli, a cui chiesi subito notizie della bancarella
verde.
Lui mi guardò sconsolato, scrollando
la testa, e fece un largo gesto con le braccia.
Pensai che volesse dirmi
semplicemente che non sapeva dove fosse, e restai impietrita quando invece lo
sentii pronunciare queste parole:
“Ha avuto una violenta emorragia
cerebrale, alla fine dell’estate. Speravamo tutti che si riprendesse, non
credevamo… È morto a novembre, che tristezza, una gran persona… Pensa, mi aveva
detto di aver appena finito di scrivere un libro, diceva che lo avevano
ispirato certi discorsi fatti con una cliente sulla magia della letteratura, o
qualcosa del genere. Diceva che era il libro che aveva da sempre voluto
scrivere e che solo ora aveva trovato lo spunto giusto.”
Non ricordo se ringraziai il
pittore, prima di raggiungere turbata la fermata del tram.
Volevo raggiungere al più presto il
mio monolocale di periferia, chiudermi
la porta alle spalle e buttarmi sul divano.
Non riuscivo a non pensare a quanto
la vita fosse strana, e si fosse divertita ad intrecciare il mio destino con
quello di uno sconosciuto filosofo ambulante.
Pensavo alla morte, che si era presa
il mio amico lasciandogli giusto il tempo di finire il suo libro, e che aveva
lambito me in modo subdolo per poi lasciarmi andare nella speranza di avere
ancora qualche margine di vantaggio. E pensavo alla Vita, celebrata dai saggi,
che mi aveva consentito in un momento delicato di conoscere una persona
straordinaria, grazie alla quale ero riuscita a far quadrare i miei, pur
parziali, conti.
Pensavo a tutto questo mentre dal
finestrino del tram guardavo scorrere la vita di quella grigia, fredda,
frenetica, strepitosa grande città, e mi accorsi che un leggero velo di lacrime
aveva cominciato ad offuscarmi la vista.
Dicembre 2017, dedicato a Giuseppe
D’Ambrosio Angelillo.