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lunedì 16 gennaio 2017

A VINCENZO MOLLICA, sempre tra i suoi miracoli



(a Vincenzo Mollica, sempre tra i suoi miracoli...)
come non aver cura della foglia al vento del proprio sogno,
quel vento che s'intrufola come un spiffero tagliente
da sotto le porte forti ma alquanto scalcagnate della nostra casa,
con quelle nostre enormi pile di libri
in magico equilibrio sopra le grosse sfere delle nostre paure,
quei tanti nostri discorsi non detti
ma così pieni di un così originale coraggio,
quella strana malinconia che ci dà forza con niente,
con le mille domande sempre in sospeso,
ma pure con quel'unico pensiero che a sorpresa sorride
e d'un tratto ci fa capire tutto:
forse sono anni che siamo ciechi e non vediamo nulla,
ma quel nostro saper vedere con l'occhio del cuore
come ci riscalda con così tanto amore vero.
un silenzio minuscolo ce lo traduce in una nuvola allegra,
un errore di ortografia ce lo trasforma in una fontana di stelle.
non saper vedere per bene le cose così come veramente sono
è sempre una ricchezza
mai una povertà,
le migliori verità se le porta sempre in tasca
il nostro sogno...
non la nostra logica stringente...
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO


vignetta di Vincenzo Mollica

martedì 25 novembre 2014



VINCENZO MOLLICA, SUPEREROE DI FUMETTI

    Stavo a casa di Vincenzo Mollica e stavamo davanti alla TV accesa. Io mi mettevo a raccontare dei miei guai e Vincenzo mi ascoltava svogliato. Dopo un pò s'è stancato dei miei guai e m'ha fatto capire che potevo andarmene pure. Allora io ho salutato e sono andato, la sua cameriera m'ha portato i vestiti. Io ho preso tutto e sono andato a vestirmi nel corridoio. Faceva un caldo bestiale quel giorno.
    "Non devo raccontare dei miei guai: stanco troppo le persone", ho pensato.
    Su di un divano abbandonato, mi son messo le scarpe e poi i pantaloni, larghissimi perchè erano tutti pieni di fili di computer, carabattole, apparecchi elettronici sfasciati. Io piano piano allora ho allineato tutto questo a un lato del divano.
    "Però ne avevo di roba nei miei pantaloni", penso.
    Mi metto i pantaloni e passa di là un mulatto.
    "Ehi, cos'hai qui?", mi fa.
    Mi mette la mano nella tasca di dietro e fa finta come di darmi una cosa. Poi scantona dietro la porta di casa sua che era proprio là.
    Io allora mi guardo nella tasca e vedo che mi sono sparite 350 euro.
    Allora vado da lui, busso e quello apre.
    "Ehi, m'hai fregato 350 euro, tira fuori il malloppo", dico.
    Quello si presenta con un martello.
    "Vattene via o finisce male per te", dice e chiude la porta.
    Io rimango là, indeciso sul da farsi.
    Arriva Valentino il Mimo, con la sua faccia di tolla, e si ficca pure lui in quell'appartamento.
    "Ehi, lo sai che abiti con un ladro?", gli dico.
    Quello con la sua faccia di cazzo mi guarda e non dice niente. Poi entra e chiude la porta.
    Allora io vado di nuovo alla casa di Vincenzo Mollica. Busso. Vincenzo apre, dietro c'è la cameriera e altri due suoi amici.
    "Mi hanno rubato 350 euro, lì in fondo al corridoio", gli dico.
    "Chi?", chiede lui.
    "Non lo so. Era un mulatto", dico.
    "Andiamo", dice lui.
    Andiamo tutti, anche i suoi amici lo seguono, alla porta del mulatto. Ma Vincenzo invece che a quella porta, va a bussare a un'altra porta lì dietro.
    Apre il mulatto. Ha un mattone grosso che alza con tutte e due le mani. Lo cala sulla testa di Vincenzo con tutte le sue forze. Ma Vincenzo, con una mossa da supereroe di fumetti, gli prende le braccia e gli fa calare il mattone sulla sua stessa testa.
    Quello si rintrona.
     "Tira fuori i soldi del mio amico o per te finisce molto male", dice Vincenzo al mulatto.
    Quello è troppo rintronato.
    Allora Vincenzo lo perquisisce e trova un mio abbonamento del tram, con la mia foto sopra, con dentro 350 euro.
    Prende la tessera e scaraventa il mulatto dentro casa sua, che crolla rovinosamente a terra. Dietro Valentino il Mimo, con la faccia di tolla, si guarda bene dall'intervenire.
    Io sto lì con un martello in mano dietro Vincenzo. Per dargli man forte caso mai la rissa diventava più cruenta.
    "Andiamo ora", dice Vincenzo.
    I suoi amici sono due supereroi dei fumetti, come lui, e io solo ora me ne accorgo.
    Ci buttiamo giù dal palazzo, volando, che diventa per incanto il pendio di una collina.
    Ci mettiamo a correre ridendo.
    Nel verde.
    All'orizzonte ci sono le torri illuminate dei palazzi della città.
    Poi risaliamo di corsa un pendio di un'altra collina.
    Si ride a più non posso.
    "Vincenzo, non me l'avevi mica mai detto che eri un supereroe", gli dico.
    "I supereroi sono sempre delle persone che nella vita quotidiana si mostrano perfettamente anonime", dice lui.
    Corriamo a perdifiato. Anch'io ho degli strani poteri se son capace di seguirli, anche se non me ne sono mai accorto prima.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO

da "IL PATRIOTA AMERICANO", libro di raccontini inedito.

     

mercoledì 23 luglio 2014

IN MOLTI

vignetta di Vincenzo Mollica

ALDA MERINI









ALDA

   Me ne andai ad abitare in fondo al Naviglio Grande, in via Lodovico il Moro, alla fine del 1984 dopo avere cambiato decine e decine di case nelle mie peregrinazioni a Milano. E fu fatale allora nelle serate di solitudine finire all’inizio del Naviglio Grande, tra il Libraccio, il bar Chimera, il bar tabacchi del Baffo, le trattorie degli anarchici. E lì mi accorsi le prime volte di Alda Merini, era impossibile non notarla con quel suo sguardo fiero, la sua andatura veloce.
   Alda era una grande camminatrice e il suo passo lei diceva che era come quello di Achille, detto appunto “piè veloce”. E lei in quei locali veniva molte volte con un fascio di dattiloscritti, fogli bianchi battuti a macchina alla meno peggio, poesie battute a macchina alla rinfusa con molte parole mancanti, certe parole spezzate, ma queste poesie erano sempre e comunque in ogni caso dei capolavori.
   Alda a quei tempi era povera come lo è rimasta per tutta la vita. Ma la povertà di Alda era una povertà speciale, non era una povertà subita, era una scelta di vita, uno stile di vita francescano. Lei diceva: “La povertà è sempre più vicina alla verità di qualsiasi altra condizione umana…” E poi c’era un altro motivo ben specifico, lei aveva una natura allegra e aveva notato da tempo che con la gente semplice si divertiva di più, tutto qui, rimanendo sempre allo stesso tempo una grande poetessa.
   A quei tempi chi la chiamava “sciura”, chi la chiamava “contessa”, chi la chiamava “lavandara”, ma comunque era sempre per tutti Alda Merini. E già a dire il suo nome si sollevava un’aura di rispetto e di profonda riverenza verso i suoi riguardi. C’era sempre poco da scherzare con Alda, però allo stesso tempo c’era sempre pure da ridere. Lei vendeva queste poesie per 1000 lire e io gliele ho comprate parecchie volte e non solo 1, ma 3 o 4 in una volta, lei sorrideva, mi ringraziava e mi diceva: “Guarda che queste sono le poesie di Alda Merini, eh? Conservale perché un giorno varranno tanto!” E infatti fu di parola, è successo proprio così.
   A quei tempi Alda non era famosa, ma era conosciuta nell’ambiente dei poeti milanesi. Molti la scansavano perché ti piantava certi sermoni e certi discorsi che non tutti reggevano e poi bisogna dire che quella sua aria popolana l’allontanava alquanto dagli intellettuali milanesi. Ma succedeva questo nei locali popolari sul Naviglio, a quei tempi il Naviglio era abitato dal popolo milanese, parlavano tutti in dialetto, a me naturalmente mi apostrofavano “il terùn”, ma non me ne sono mai lamentato, non lo dicevano per sfottere, lo dicevano così tanto per scherzare e poi naturalmente tutti passavano a chiamarmi Giuseppe. Però mi faceva specie che io ascoltavo il dialetto e ogni tanto naturalmente non capivo niente, e quella mia faccia incuriosita… “Ah, l’è un terùn, non capisce minga”. Sulle prime era vero, ma poi pian piano cominciai a capire.
   E mi ricordo che a quei tempi ci scambiammo un paio di libri, lei mi regalò “La Terra Santa”, che aveva pubblicato con la Scheiwiller e io le regalai un mio libro autoprodotto, che s’intitolava “L’Anima”,  libro che poi lei mi ha confessato che ha conservato per lungo tempo. Alda, non conservava mai a lungo i libri in casa sua, li regalava sempre e fu proprio a motivo di un libro che cominciammo a legarci. Una volta venne nel bar tabacchi del Baffo dove si vendevano sigarette e si beveva pure, caffè, liquori, vino, quel che capitava, con i tavolini con le tovaglie rigate bianche e rosse, venne un libraio con due volumoni grossi grossi, uno era “Il Decamerone”, un altro era un libro di Milton in inglese, tutti e due grossi, illustrati.
   Questo libraio era pure un poeta, che si chiamava Ravazzo. Alda l’aveva catalogato nella categoria dei depressi-furbi, gente che fa finta di essere malinconica, ma che poi sotto sotto i suoi affarucci se li cura sempre. Alda fu interessata al volume del “Decamerone”, era veramente un grosso volume, tutto illustrato, pieno di figure, pubblicato da un istituto grafico di Firenze, un libro di valore e Alda lo voleva. Questo libraio mezzo poeta, mezzo affarista, mezzo pazzo, mezzo furbo, le chiese 50.000 lire, uno sproposito per quei tempi, lei naturalmente non ce li aveva e lui, il Ravazzo, insisteva:
   “È un bel libro, signora Alda, non lo trova mica in giro, è un bell’affare. Lo do per poco, 50.000 lire, è un libro che vale almeno 500.000 lire…”
   “Eh, la Madonna!”
   “Sì, sì, signora Alda…” 
   Si vedeva che ci teneva a quel libro, che lo voleva, ma quel libraio della razza dei cretini-astuti o dei dementi-intelligenti, come li chiamava Alda, non glielo mollava certo per nulla. Io quel giorno era alquanto in grana, dovevo avere un centomila in tasca tutte da dieci, avevo venduto anch’io dei libri in giro e avevo quei soldi, a veder la faccia delusa di Alda che non poteva prender quel libro e quello naturalmente non gliel’avrebbe mai dato senza soldi, le dissi:
   “Alda, se vuoi te lo pago io il libro…”
   “Veramente?”
   “Sì, se vuoi te lo pago io…”
   “Va bene, grazie, Giuseppe. Ti darò un mio libro, un mio libro inedito…”
   “No, non c’è bisogno Alda…”
   “Sì, sì, te lo darò, te lo darò…”
   “Ecco, ecco…” disse il Ravazzo. “Tu gli paghi il libro a lei e lei ti regala un libro a te. E’ fatto l’affare, è fatto l’affare!”
   Così io gli diedi 50.000 lire a questo Ravazzo che subito sparì, contento e strofinandosi le mani, e Alda si prese questo superprezioso “Decamerone”. Alda poi mi diede una piccola raccolta di poesiole brevi, ma tutte bellissime che s’intitolava “All’insegna del gallo d’oro”, che conservo ancora tra le mie carte. A quei tempi non facevo tantissimi libri, ne facevo 5 o 6 all’anno, perlopiù libri miei. Dopo un po’ ritrovandoci di nuovo in qualche bar, là sul Naviglio Grande, Alda mi chiamò, mi disse:
   “Giuseppe, vieni, ti devo dire una cosa…”
   “Cosa?”
   “Ti ricordi quel Ravazzo, quel depresso-furbo?”
   “Sì, ebbene?”
   “Era proprio un furbo, quel “Decamerone” lì era in 2 volumi e lui mi ha dato solo un volume, da solo quel volume non vale niente…”
   “Ma no!”
   “Sì, io glielo volevo regalare a un mio amico, un mio amico medico e ho fatto anche una figura da stupida…”
   “Ma come, signora Merini, mi regala solo un volume e l’altro volume dov’è?”
   “Oh, Madonna! Come solo un volume?”
   “Sì, è solo un volume, manca il secondo…”
   “Ma quello me ne ha venduto solo uno…”
   “Eh, sì, ma non è tutto il “Decamerone”, è metà…”
   “E così ho fatto una grama figura per colpa di quel demente, però intelligente, se ne va a spasso a fregare il prossimo…”
   E così per quel libro Alda amava sempre recitare questo verso di Dante: “Galeotto fu il libro e chi lo lesse…”. Ci legammo d’amicizia, ci scambiammo i telefoni e la prima telefonata che Alda mi fece era di questo tenore: “Giuseppe, vieni a trovarmi, altrimenti mi ammazzo!” Alda era allo stesso tempo allegrissima, ma pure molto tragica, lei amava moltissimo la vita naturalmente e la paragonava al paradiso, diceva: “Dopotutto vivere è l’unico paradiso possibile per gli uomini…” Ma allo stesso tempo era come se sfidasse sempre la morte, praticamente le piaceva andarle vicino, molto vicino, come per annusarla, come per intravederla, come per darle un’occhiata, così, per vedere com’era fatta…
   Lei buttava di solito mozziconi accesi intorno a sé, sdraiata sul letto, e naturalmente il pavimento era tutto pieno di carta e ogni tanto un mucchietto di carta cominciava a bruciare e lei non se ne preoccupava affatto, guardava il mucchietto di carta bruciare e si sincerava fin dove poteva arrivare, poi quando la cosa cominciava a essere pericolosa spegneva. Una volta mi trovai a casa sua, buttò un mozzicone, cadde su un cuscino a terra e il cuscino cominciò a fumare, poi venne fuori un po’ di brace e cominciò a infiammarsi…
   “Alda, il cuscino! Sta andando a fuoco!”
   “Stai fermo, non me lo toccare…”
   “Come? Alda, sta andando a fuoco il cuscino!”
   “Ti ho detto di stare fermo, guardalo soltanto…”   
   “Come guardalo! Va a fuoco la casa, Alda!”
   E rideva, poi, me lo lasciava spegnere. E così penso che fu quella famosa vicenda del gas che vide me per caso come protagonista, pure. Lei mi aveva chiamato quel giorno 2 o 3 volte già e si lamentava di un suo amico che non aveva avuto l’impegno di prestarle almeno 20 euro, 20mila lire, come diceva lei… “Ti rendi conto 20mila lire non me le ha date! Ecco che razza di amici che ho io! Con degli amici così cosa ci faccio?”
   Io cercavo di farle cambiare discorso, ce ne aveva tanti amici, comunque avevo capito che era una cosa grave, che se l’era presa veramente tanto e che era diventata veramente triste. Le avevo detto: “Alda, ti vengo a trovare, te le porto io le 20mila lire…” E me ne stavo lì già alla fermata del tram che dovevo andare a casa sua, quando all’improvviso ricevo la telefonata: “Addio, Giuseppe, non ci vedremo più. Ho aperto il gas…” E mise giù il telefono, non disse “sto per aprire il gas”, oppure: “aprirò il gas”. Disse “ho aperto il gas” e io mi immaginai la scena con lei che se ne stava lì sdraiata sul letto e il gas che fuoriusciva dalla cucina…
   Stavo lì alla fermata di via Palmieri, non sarei mai riuscito ad arrivare in tempo, neanche a prendere un taxi, così d’un lampo, quasi tremando, mi venne immediatamente il pensiero di chiamare i carabinieri che sarebbero arrivati in un lampo. Telefonai e dissi che Alda Merini era in pericolo, dissi pure che era il primo poeta della nazione, premiato dal presidente della repubblica Ciampi, captai l’attenzione del carabiniere in linea che mi disse: “Ci attiviamo immediatamente!” e così fu.
   Io nel frattempo arrivai sul Naviglio Grande dopo una decina di minuti, un quarto d’ora, io già da lontano vidi davanti a casa sua auto di pompieri, autoambulanza, 2 o 3 macchine di carabinieri, e io che quasi correvo, correvo andando verso casa sua. Mi ricordo che passai davanti alla farmacia del Tarantino, che stava sulla porta e mi disse:
   “Giuseppe, è Alda, vero?”
   E io gli risposi:
   “Sì, è lei!”
   E arrivai che il palazzo era pieno di carabinieri, di pompieri, vigili urbani, infermieri e Alda seduta sul suo letto tranquillissima. C’erano già là altri amici arrivati prima di me, che cominciarono a inveire:
   “Ma come? Credi alle cose che ti dice Alda Merini?”
   “Sì, io ci credo alle cose che dice Alda Merini…”
   “Ma lo sai che lei straparla! Come? Ti ha detto che lei si ammazza e tu ci credi? Ma lo ha detto anche mille altre volte e non è mai successo niente…”
   “A me non me l’ha mai detto in maniera così severa…”
   “Non dovevi chiamare i carabinieri! Lo sai che Alda fa di queste sparate…”
   C’era lì un maresciallo che sentì questi discorsi e venne da me…
   “È lei che ha chiamato?”
   “Sì…”
   “È lei D’Ambrosio?”
   “Sì…”
   “Non si preoccupi, ha fatto bene D’Ambrosio a chiamarci…”
   E non disse più niente… Io sentii chiaramente e l’avevano sentito anche altri, ma lo sentii chiaramente anche se ero arrivato più tardi degli altri, l’odore del gas in giro… Con le finestre della casa tutte spalancate… Era certo pure estate…
   “Ma sì, l’ha aperto…”
   “Non so… voleva fare un caffè…”
   “Ma no…”
   Comunque, fatto sta, che la ricoverarono nella clinica psichiatrica del San Paolo dove rimase più o meno 4 o 5 giorni. Poi accertarono la sua salute mentale intoccata e la lasciarono andare. Io naturalmente l’andai a trovare tutti i giorni e lì se ne stava tranquilla, lei, e anche il primo giorno, tutta tranquilla, la conoscevano tutti, sia i medici, sia i ricoverati…
   “C’è Alda Merini… C’è Alda Merini!”
   E lei che si mise a dar consigli a tutti, a scriver poesie per tutti. Ho da qualche parte quelle poesie che dettava. Lei naturalmente disse che ero stato uno sprovveduto, un bamba, a chiamare i carabinieri, perché poi, tra parentesi, gli staccarono il gas e non glielo riallacciarono più e per lei fu quasi un’offesa, una limitazione della sua capacità di gestire la vita e io naturalmente lasciavo dire le persone che dicevano:
   “Ah, ma che amici ti fai, Alda? Ma può essere che sono così cretini? Così rimbambiti che chiamano i carabinieri, così, alla chetichella, alla sprovveduta?”
   Io lasciavo dire, uscirono anche parecchi articoli sui giornali nazionali su questa storia: “Ad Alda Merini hanno tolto il gas per colpa di un amico deficiente…” E una volta quando stavo con lei nella clinica psichiatrica del San Paolo, lei naturalmente fumava e non poteva fumare, né in corridoio, né in camera, per potersi fumare qualche sigaretta andava nel gabinetto delle donne, si portava la sedia, mi diceva:
   “Dai, Giuseppe, vieni con me! Accompagnami!”
   “Ma, Alda! Ma è il gabinetto delle donne! Non posso venire io…”
   “Dai, dai, non c’è motivo che tu non possa venire, non violenti nessuno. Dai, dai, vieni con me, fammi compagnia!”
   E così ce ne andavamo nel gabinetto delle donne, ci sedevamo vicino alla finestra su due sgabellini rimediati lì nel corridoio, e seduti, e lei fumava, mi disse:
   “Perdonami, Giuseppe, che ti ho fatto passare per un cretino, perdonami che tutti ti danno dell’idiota, cosa che tu non sei assolutamente. Naturalmente, è vero, quel giorno ho aperto il gas, ho detto: “Mamma, come puzza la morte, è proprio brutta!” E dopo un minuto son tornata in cucina, dopo averti telefonato, e ho subito chiuso il gas…”
   “Non fa niente, Alda, l’importante è che tu stia bene…”
   E mi prese la mano e me l’accarezzò in un gesto che le era usuale… Mi chiamò pure il suo psichiatra, il famoso dottor G., il dottor Gabrici, lei mi diede il numero e insistette che l’andassi a trovare. E il dottor Gabrici, se pure avesse quasi 100 anni, mi ricevette in camice e mi chiese di quel giorno, io gli raccontai la verità e lui fece una relazione scritta che consegnò alle autorità, scrivendo naturalmente che Alda Merini era perfettamente in grado d’intendere e di volere. Anche quella relazione ce l’ho da qualche parte, lei lesse la relazione e poi me la diede a me. Alla fine si rassegnò a prepararsi il caffè con il fornellino elettrico, se ne lamentava sempre, ma la verità è che lei non cucinava mai, non sapeva assolutamente cucinare, non si faceva mai nemmeno il caffè, che si faceva sempre arrivare dai bar di sotto. Voleva avere solo la possibilità di cucinare.
   Certe volte comprava un pollo, lo metteva nella pentola e lo metteva a bollire e il pollo bolliva, bolliva, bolliva, l’acqua evaporava tutta e poi il pollo cominciava a bruciare, e bruciava, bruciava, finché diventava un pezzo intero di carbone. Certe volte quando arrivavo…
   “Alda, ma qui c’è un pollo che brucia sulla pentola!”
   “Sì, sì, sì, spegni, spegni! Cerco sempre di cucinarlo questo maledetto pollo e mai che mi riesca una volta!”
   E si metteva a ridere… Alda si faceva sempre fare la spesa sotto casa e mangiava prosciutti, panini, salami, dolciumi e molte volte quando voleva mangiare qualcosa di caldo mi chiamava…
   “Giuseppe, mi porteresti un piatto di pastina stasera?”
   Certe volte mi chiamava che erano le 10, e io dicevo a me stesso: “È Alda Merini che vuole un piatto di pastina alle 10 di sera, non è una pinco palla qualsiasi…”
   E allora le preparavo la pastina, la mettevo in una pentola con i piatti, l’avvolgevo in una pezza di cucina alla maniera dei contadini quando si portano il mangiare caldo in campagna e così andavo a casa sua. Alda andava matta dell’ossobuco e del risotto alla milanese e poi delle uova sode. Quando mi vedeva arrivare con il mio piccolo fagotto alla buona con dentro la pentola e i piatti, lei mi accoglieva sorridente e diceva:
   “Che hai portato di buono? Che hai portato di buono?”
   E io le dicevo:
   “Le uova sode…”
   “Oh, sì, sì, le uova sode!”
   Le uova sode le ricordavano la povertà subita nel tempo dello sfollamento, lì, dalle parti del Piemonte, che lei andava a raccattare le uova nei pollai dei contadini e i contadini che la scoprivano le correvano dietro e la volevano picchiare.
   Alda, durante il giorno, riceveva miriadi di visite, persone di tutti i posti d’Italia e anche di paesi stranieri. Una volta ho visto una professoressa austriaca arrivare da Vienna apposta apposta per lei e lei tutti riceveva se era di buonumore, se era di cattivo umore sbatteva la porta in faccia al malcapitato e lo mandava all’inferno.
   Una volta arrivò addirittura una deputata del parlamento cubano dall’Avana, apposta apposta da Cuba per lei. Lei la guardò in faccia e le sbatté la porta sul muso facendola rimanere di stucco. Per caso capitai io e lei mi pregò, che aveva fatto un viaggio inverosimile per vedere Alda Merini, e adesso veniva accolta in questa maniera allucinante. Io andai da Alda, le spiegai la situazione… “Non m’interessa!” disse lei. Io provai a farla ricevere, ma non ci fu verso, questa ragazza deputata andò a comprare una bottiglia di vino e io tornai su a portare questa bottiglia di vino, ma non ci fu verso, non la volle ricevere, io poi tornai giù per cercare di consolare questa ragazza e come capitava sempre Alda aveva un sesto senso, capiva le persone con un semplice sguardo e lei aveva ragione, questa qui era una mezza pazza, era venuta dall’Avana per scrivere un libro insieme ad Alda Merini. Io ci rimasi un po’ insieme, poi lei se ne andò per conto suo, e mi vennero dei dubbi che fosse una deputata e che fosse venuta dall’Avana.
   Era di sera che Alda rimaneva sola e allora mi chiamava. Certe volte parlavamo a lungo al telefono, ma certe volte voleva che l’andassi a trovare, e io l’andavo a trovare… Lei sdraiata sul letto o seduta in poltrona e io seduto a una sedia… su un minuscolo panchettino…
   “Oh, trova la prima sedia che becchi, siediti anche sul panco se vuoi…”
   E la sera lei voleva pregare, diceva le preghiere a Maria. E mi chiedeva sempre di andare a comprare le boccette di acquasanta del Duomo, io gliele portavo ed era così felice, prendeva l’acqua la spargeva un po’ sul comodino intorno al letto…
   “Scaccio il demonio…” diceva. “Oh, com’è pieno di demoni questo mondo, tu non immagini quanto!”
   D’estate andavo sempre via da Milano dopo ferragosto per non lasciare sola Alda. Alda aveva il terrore di rimanere sola a Milano e nella prima quindicina di agosto Milano è assolutamente deserta. Una volta Alda mi ha dettato un libro che s’intitolava “Il re delle vacanze”   pensavo che si riferisse a se stessa, ma ultimamente l’ho riletto per bene e non era a se stessa che si riferiva, ma a me. Non andavo via se non arrivava qualche altro amico che mi sostituisse per far compagnia ad Alda, che di solito era Manuel Serantes, il poeta cileno, un altro grande amico di Alda. Alda voleva essere voluta bene come persona, come donna, la poetessa era come un’ombra per lei, non aveva nessuna importanza, voleva che le persone le volessero bene perché era Alda, non perché era la poetessa Alda.
   Con lei io non ho mai discusso nessuna questione di poesia, non ce n’era bisogno. Per Alda la vita era la poesia e allora parlare di quelle cose minute, quotidiane, di quelle piccole e umili cose pratiche, per lei era quella la vera poesia, quella fatica del vivere, il giorno che arrivava. Lei aveva sempre questa frase al primo albeggiare del giorno: “Toh, ecco qui davanti a me un altro miracolo!”. Ora come ora i critici, i professori vari dicono un sacco di sciocchezze su Alda, non riescono a concepire, in fondo, la condizione di vita della stessa poesia. Alda ha dettato un libro a Vincenzo Mollica, altro grande suo amico, che s’intitola: “Più bella della poesia è stata la mia vita”, e non è una frase ad effetto, Alda credeva sinceramente e profondamente in questo.
   E non solo c’era la poesia nella vita, Alda pensava che nella vita c’era pure Dio e da qui viene la fortissima sua religiosità, che non è mai una religiosità bacchettona ed erudita. Ho visto parlare Alda con i maggiori teologi della nostra Italia e ho visto i nostri maggiori teologi battere ingloriosamente in ritirata davanti a lei. Ma Alda si sapeva difendere anche dagli altri bambaccioni, ciarlatani, mi ricordo che una volta un tizio andò da lei e disse:
   “Alda, ho visto Gesù Cristo, oggi…”
   E lei gli rispose:
   “Io invece stamattina ho visto Napoleone, l’ho trovato dimagrito, ma di buonumore…”
   Molti hanno parlato di Alda come una medium, io in queste cose non ci credo, per mia storia, per mia convinzione, eppure, ho assistito a certe scene che praticamente do ragione a queste persone che lo affermano. Dice Vincenzo Mollica: “Alda era di un altro pianeta”, e ha perfettamente ragione. Io nella vita a Milano ho avuto tanti amici, amici costretti, amicizie fortissime, amici che facevano tutto per me, ma posso ben dire pure allo stesso tempo che non ho mai avuto nella mia vita un’amica così potente e così affezionata come Alda. Mi telefonava sempre, dappertutto, fossi a Milano, fossi in Puglia, o fossi a Roma, o fossi in Sicilia. Voleva sempre sapere cosa facevo, cosa stavo facendo, cos’avevo mangiato, quando tornavo… “Quando torni, quando torni?”
   Alda è stata la più grande amica della mia vita, maschi compresi. Mi telefonava sempre a tutte le ore del giorno, anche 10 volte al giorno, anche di più. Io avevo sempre il telefono acceso di notte, certe volte mi telefonava a notte fonda, io dormivo, e lei mi diceva:
   “Giuseppe, stai dormendo?”
   “Sì, Alda…”
   “Oh, scusami se ti ho svegliato, ma volevo sapere se eri lì, se avevi il telefono acceso…”
   Voleva sapere se l’amico era là, presente, qualsiasi cosa le potesse capitare. E infatti una volta capitò che aveva bisogno, mi chiamò verso le 3 e mi disse che stava male, sentiva un dolore al petto, al cuore, le dissi:
   “Alda, chiama l’autoambulanza…”
   “No, no, no, non vado su un’autoambulanza se non vieni tu!”
   E così chiamai un taxi e mi precipitai da lei, chiamammo l’autoambulanza e andammo al Policlinico, i medici la salvarono, degli amici poi dissero in giro: “Giuseppe ha salvato la vita ad Alda…” A seguire lei mi son girato quasi tutti gli ospedali di Milano, ma Alda aveva una fibra fortissima, aveva mille malattie, ma tutte le superava. Adesso il telefono di casa mia non suona più, suona raramente, naturalmente. Quando c’era Alda suonava in continuazione. Devo confessare che ogni tanto faccio il pazzo e le telefono io, faccio il suo numero e mi risponde una voce che dice: “Il cliente da lei chiamato è momentaneamente assente, provi più tardi…” e a me mi sembra di credere a questo avviso, che Alda se ne stia in giro da qualche parte…
   Sul mio tavolo c’è una grande foto che mi ha regalato, lei che sorride, che si tiene al cuore un libro, il suo libro su San Francesco. Lei amava scherzare sulla morte, certe volte l’ho sentita dire a certe persone importune che le telefonavano: “No, guardi, Alda Merini non c’è. L’hanno ricoverata al cimitero…” e scoppiava a ridere e metteva giù. Lei diceva: “Il mio epitaffio è questo, voglio che sia scolpito sulla mia tomba: “Scusate se vi ricevo sdraiata…” così era lei, non gliel’hanno messo questo epitaffio, naturalmente.
   Gli ultimi tempi soleva ripetere: “Oh, Giuseppe, ci siamo voluti bene. Oh, come ci siamo voluti bene noi due, ah…” E poi scoppiava a ridere: “Ah, ma quanto ci siamo pure divertiti! Ci siamo proprio divertiti!” Quante volte mi mandava in giro a fare degli scherzi assurdi, delle cose allucinanti, tipo scherzi da studenti all’università, scherzi goliardici, ma che avevano a che fare sempre con l’amore. Alda si innamorava sempre, ma il suo era un amore di tipo particolare che sfociava sempre nell’amicizia e lei certe volte mi metteva con le spalle al muro…
   “Sei un mio amico?”
   E io dicevo:
   “Sì, sì, sono un tuo amico…”
   “Sei un mio amico? E allora non ti puoi tirare indietro!”
   E mi mandava in giro a fare certi scherzi a certi presunti suoi amici che le dicevano a parole di volerle bene ma che in realtà se ne infischiavano di lei. E io accettavo di mandare avanti gli scherzi, accettavo di farli e quando tornavo a raccontare le cose lei scoppiava a ridere…
   “Ma no, ma no! Non è possibile! Ha risposto proprio così?”
   “Sì sì, ha risposto così…”

   E scoppiava ancora a ridere, lo scherzo più usuale era di spaventare con potenti battute di spirito i suoi presunti amici, i suoi falsi e improbabili corteggiatori che sistematicamente la deludevano. A lei piaceva moltissimo essere difesa. Era così felice quando la difendevo davanti a tutti e davanti a tutto, si sentiva proprio contenta.
Giuseppe D'Ambrosio Angelillo

da "L'UOMO DI TERRA", 
libro intervista a cura di Maria Theresa Venezia,
Acquaviva 2014

domenica 22 dicembre 2013

sabato 19 gennaio 2013

BUON COMPLEANNO, DORECIAKGULP!

Ciao Vincenzo, grande amico di tutti gli artisti d'Italia e di tutto il mondo, e grande artista anche tu, Buon Quindicesimo Compleanno di Doreciakgulp!!!!
Giuseppe D'Ambrosio Angelillo
Soldato Rock

mercoledì 31 ottobre 2012

BETTY BOOP (a Vincenzo Mollica)

Betty Boop di ceramica, altissima, nella vetrina di un negozio di Milano
In vetrina a reggere
gli sguardi allucinati
dei passanti,
le burle dei balordi,
le bestemmie incompresibili degli ubriachi,
mentre il freddo li scarrozza via
e la città nemmeno se li ricorda.
Io son qui,
e me ne rimango
a pensare a te
che, ahimè,
nemmeno tu sai chi sono
e che ero una volta.
La matita che mi faceva vivere
tanto tempo fa
non la usa più nessuno,
sarà pesante ormai l'arte
e i dadi che buttano per gioco
chi non ci ha più niente da amare...
giuseppe d'ambrosio angelillo

martedì 12 giugno 2012

Filippo Brunamonti IL PRIMO LATTE romanzetto ACQUAVIVA

"Filippo Brunamonti ha scritto un romanzo poetico che tocca il cuore come un bel paesaggio, una bella boccata d'aria pura, qualcosa che lascia tanti pensieri e poche parole da dire..."
VINCENZO MOLLICA

"E, la mattina dopo, si riparte
magari seguendo le stelle,
o una stella."
ERMANNO OLMI

L'essenza narrativa di questo romanzetto sta tutta in 44 lettere che un uomo lascia ad un nipote perchè le apra quando non ci sarà più.

illustrazioni di Mauro Cicarè
prefazione di Vincenzo Mollica

www.libriacquaviva.org

mercoledì 27 luglio 2011

VINCENZO MOLLICA poesia di gd angelillo

arriva sempre con la sua troupe di sorrisi
e buonumore al completo,
si piazza in mezzo alla stanza
e ti offre gratis il suo gelato di microfono
al cioccolato
offerto con gran gentilezza da mamma Rai.
la sua prima domanda la raccatta a istinto
proprio dal tuo tavolo
dove c'è il casino unico della tua vita,
lui intanto stappa sornione la sua bottiglia
di spumante
e ti offre l'allegria di un capitano di transatlantico
che conosce alla perfezione tutti i moli
dell'arte italiana al gran completo.
Fellini,
Hugo Pratt,
Alda Merini.
Vasco Rossi,
De Andrè,
Roberto Benigni.
registi,
cantanti,
scrittori.
film,
teatri,
pitture.
Lui ha sempre tempo
e il sole non gli mette mai fretta,
nella sua agenda grossa come una Bibbia
i nomi di tutti quanti gli artisti italiani,
conosciuti e sconosciuti,
per lui non c'è proprio differenza,
l'importante che siano artisti autentici,
tutto il resto è secondario.
non parla mai male di nessuno
perchè la passione sincera è la sua unica bussola,
e con quella unicamente si orienta sia di notte
che di giorno.
a fine intervista raccatta tutta la sua sapienza arricchita ancora di un altro sacco
e riporta il suo malloppo a mamma Rai,
e riversa a mezzogiorno e a sera
qualcosa di bello e di utile
nei nostri scarni boccali quotidiani.
poi lui sul tardi si compra un dolce
e pensa al bicchierino di poesia
da offrire domani
ancora una volta a tutta l'Italia.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
http://www.libriacquaviva.org/
http://www.books.google.com/

lunedì 17 gennaio 2011

FRANCESCO GUCCINI E IL SUO GATTONE NERO di D'Ambrosio Angelillo


Se ne stava là davanti a lui
come il punto nero centro dell'universo intero,
mallevadore di un marasma di sogni.
Lui una fortezza di canzoni
irta di cannoni a lunghissima gittata,
il camino acceso,
una decina di coltellacci appesi al muro.
Le ombre di tutti i suoi amici giocherelloni
tutt'intorno,
con tutti i suoi morti a sorridergli
e a salutarlo come a una festa di mietitura,
in quei giugni in fiore
con quegli anni di rivoluzione,
quelle infuriate a puntare l'orizzonte
per cambiargli le nuvole
e le luci,
e all'occorrenza pure i connotati.
.
Ma il gatto, il gatto era davvero superbo
in quel suo sguardo di marinaio
uso a qualsiasi precipizio,
a qualsiasi burrasca d'alto mare,
quello sguardo di antica saggezza
a lisciare a un tempo con lingua raspa
inferno e paradiso,
inzuccherato di sonno,
a sapere tutto di campagne e metropoli,
fintamente a fare le fusa.
Mentre l'Italia intera fa da musa
a quel canzoniere greco-emiliano,
amico stretto di Omero,
che all'incrocio della vallata
aspetta il segnale che un giorno
gli profetizzò la sua prima donna.
.
E così, stanotte, in TV
difronte alle torte di ciliege di Vincenzo Mollica
se ne stava il gattone nero di Francesco Guccini,
quell'antico ribelle benedetto,
che meditava sulla vita e sul mondo,
come fosse la risata e la contentezza
della sua ultima canzone ancora da cantare
in faccia a tutti,
guardando ognuno come sempre
fieramente
dritto negli occhi.
Con fiacca indulgenza e acuta ironia.
.
Giuseppe D'Ambrosio Angelillo
.

domenica 9 gennaio 2011

DORECIAKGULP rubrica di cultura e spettacolo del TG1 a cura di Vincenzo Mollica dell' 8 gennaio 2011

DORECIAKGULP rubrica di cultura e spettacolo del TG1 a cura di Vincenzo Mollica dell' 8 gennaio 2011, in cui tra l'altro parla del libro di racconti "OGNI NOTTE UN SOGNO" di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo, Piccola Casa Editrice ACQUAVIVA.

www.libriacquaviva.org

www.dambrosioangelillo.it

www.books.google.com

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