regala Libri Acquaviva

regala Libri Acquaviva
CHARLES BUKOWSKI, Tubinga, MARC CHAGALL, Milano, ALDA MERINI, Grecia, Utopia, ROMANZI, Acquaviva delle Fonti, RACCONTI CONTADINI, America, POESIE, ERNST BLOCH, Sogni, Gatti Pazzi, Spinoza, FEDOR DOSTOEVSKIJ, ITALIA, New York, FEDERICO FELLINI, Poesie di Natale
Visualizzazione post con etichetta Maria Theresa Venezia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Maria Theresa Venezia. Mostra tutti i post

mercoledì 23 luglio 2014

ALDA MERINI









ALDA

   Me ne andai ad abitare in fondo al Naviglio Grande, in via Lodovico il Moro, alla fine del 1984 dopo avere cambiato decine e decine di case nelle mie peregrinazioni a Milano. E fu fatale allora nelle serate di solitudine finire all’inizio del Naviglio Grande, tra il Libraccio, il bar Chimera, il bar tabacchi del Baffo, le trattorie degli anarchici. E lì mi accorsi le prime volte di Alda Merini, era impossibile non notarla con quel suo sguardo fiero, la sua andatura veloce.
   Alda era una grande camminatrice e il suo passo lei diceva che era come quello di Achille, detto appunto “piè veloce”. E lei in quei locali veniva molte volte con un fascio di dattiloscritti, fogli bianchi battuti a macchina alla meno peggio, poesie battute a macchina alla rinfusa con molte parole mancanti, certe parole spezzate, ma queste poesie erano sempre e comunque in ogni caso dei capolavori.
   Alda a quei tempi era povera come lo è rimasta per tutta la vita. Ma la povertà di Alda era una povertà speciale, non era una povertà subita, era una scelta di vita, uno stile di vita francescano. Lei diceva: “La povertà è sempre più vicina alla verità di qualsiasi altra condizione umana…” E poi c’era un altro motivo ben specifico, lei aveva una natura allegra e aveva notato da tempo che con la gente semplice si divertiva di più, tutto qui, rimanendo sempre allo stesso tempo una grande poetessa.
   A quei tempi chi la chiamava “sciura”, chi la chiamava “contessa”, chi la chiamava “lavandara”, ma comunque era sempre per tutti Alda Merini. E già a dire il suo nome si sollevava un’aura di rispetto e di profonda riverenza verso i suoi riguardi. C’era sempre poco da scherzare con Alda, però allo stesso tempo c’era sempre pure da ridere. Lei vendeva queste poesie per 1000 lire e io gliele ho comprate parecchie volte e non solo 1, ma 3 o 4 in una volta, lei sorrideva, mi ringraziava e mi diceva: “Guarda che queste sono le poesie di Alda Merini, eh? Conservale perché un giorno varranno tanto!” E infatti fu di parola, è successo proprio così.
   A quei tempi Alda non era famosa, ma era conosciuta nell’ambiente dei poeti milanesi. Molti la scansavano perché ti piantava certi sermoni e certi discorsi che non tutti reggevano e poi bisogna dire che quella sua aria popolana l’allontanava alquanto dagli intellettuali milanesi. Ma succedeva questo nei locali popolari sul Naviglio, a quei tempi il Naviglio era abitato dal popolo milanese, parlavano tutti in dialetto, a me naturalmente mi apostrofavano “il terùn”, ma non me ne sono mai lamentato, non lo dicevano per sfottere, lo dicevano così tanto per scherzare e poi naturalmente tutti passavano a chiamarmi Giuseppe. Però mi faceva specie che io ascoltavo il dialetto e ogni tanto naturalmente non capivo niente, e quella mia faccia incuriosita… “Ah, l’è un terùn, non capisce minga”. Sulle prime era vero, ma poi pian piano cominciai a capire.
   E mi ricordo che a quei tempi ci scambiammo un paio di libri, lei mi regalò “La Terra Santa”, che aveva pubblicato con la Scheiwiller e io le regalai un mio libro autoprodotto, che s’intitolava “L’Anima”,  libro che poi lei mi ha confessato che ha conservato per lungo tempo. Alda, non conservava mai a lungo i libri in casa sua, li regalava sempre e fu proprio a motivo di un libro che cominciammo a legarci. Una volta venne nel bar tabacchi del Baffo dove si vendevano sigarette e si beveva pure, caffè, liquori, vino, quel che capitava, con i tavolini con le tovaglie rigate bianche e rosse, venne un libraio con due volumoni grossi grossi, uno era “Il Decamerone”, un altro era un libro di Milton in inglese, tutti e due grossi, illustrati.
   Questo libraio era pure un poeta, che si chiamava Ravazzo. Alda l’aveva catalogato nella categoria dei depressi-furbi, gente che fa finta di essere malinconica, ma che poi sotto sotto i suoi affarucci se li cura sempre. Alda fu interessata al volume del “Decamerone”, era veramente un grosso volume, tutto illustrato, pieno di figure, pubblicato da un istituto grafico di Firenze, un libro di valore e Alda lo voleva. Questo libraio mezzo poeta, mezzo affarista, mezzo pazzo, mezzo furbo, le chiese 50.000 lire, uno sproposito per quei tempi, lei naturalmente non ce li aveva e lui, il Ravazzo, insisteva:
   “È un bel libro, signora Alda, non lo trova mica in giro, è un bell’affare. Lo do per poco, 50.000 lire, è un libro che vale almeno 500.000 lire…”
   “Eh, la Madonna!”
   “Sì, sì, signora Alda…” 
   Si vedeva che ci teneva a quel libro, che lo voleva, ma quel libraio della razza dei cretini-astuti o dei dementi-intelligenti, come li chiamava Alda, non glielo mollava certo per nulla. Io quel giorno era alquanto in grana, dovevo avere un centomila in tasca tutte da dieci, avevo venduto anch’io dei libri in giro e avevo quei soldi, a veder la faccia delusa di Alda che non poteva prender quel libro e quello naturalmente non gliel’avrebbe mai dato senza soldi, le dissi:
   “Alda, se vuoi te lo pago io il libro…”
   “Veramente?”
   “Sì, se vuoi te lo pago io…”
   “Va bene, grazie, Giuseppe. Ti darò un mio libro, un mio libro inedito…”
   “No, non c’è bisogno Alda…”
   “Sì, sì, te lo darò, te lo darò…”
   “Ecco, ecco…” disse il Ravazzo. “Tu gli paghi il libro a lei e lei ti regala un libro a te. E’ fatto l’affare, è fatto l’affare!”
   Così io gli diedi 50.000 lire a questo Ravazzo che subito sparì, contento e strofinandosi le mani, e Alda si prese questo superprezioso “Decamerone”. Alda poi mi diede una piccola raccolta di poesiole brevi, ma tutte bellissime che s’intitolava “All’insegna del gallo d’oro”, che conservo ancora tra le mie carte. A quei tempi non facevo tantissimi libri, ne facevo 5 o 6 all’anno, perlopiù libri miei. Dopo un po’ ritrovandoci di nuovo in qualche bar, là sul Naviglio Grande, Alda mi chiamò, mi disse:
   “Giuseppe, vieni, ti devo dire una cosa…”
   “Cosa?”
   “Ti ricordi quel Ravazzo, quel depresso-furbo?”
   “Sì, ebbene?”
   “Era proprio un furbo, quel “Decamerone” lì era in 2 volumi e lui mi ha dato solo un volume, da solo quel volume non vale niente…”
   “Ma no!”
   “Sì, io glielo volevo regalare a un mio amico, un mio amico medico e ho fatto anche una figura da stupida…”
   “Ma come, signora Merini, mi regala solo un volume e l’altro volume dov’è?”
   “Oh, Madonna! Come solo un volume?”
   “Sì, è solo un volume, manca il secondo…”
   “Ma quello me ne ha venduto solo uno…”
   “Eh, sì, ma non è tutto il “Decamerone”, è metà…”
   “E così ho fatto una grama figura per colpa di quel demente, però intelligente, se ne va a spasso a fregare il prossimo…”
   E così per quel libro Alda amava sempre recitare questo verso di Dante: “Galeotto fu il libro e chi lo lesse…”. Ci legammo d’amicizia, ci scambiammo i telefoni e la prima telefonata che Alda mi fece era di questo tenore: “Giuseppe, vieni a trovarmi, altrimenti mi ammazzo!” Alda era allo stesso tempo allegrissima, ma pure molto tragica, lei amava moltissimo la vita naturalmente e la paragonava al paradiso, diceva: “Dopotutto vivere è l’unico paradiso possibile per gli uomini…” Ma allo stesso tempo era come se sfidasse sempre la morte, praticamente le piaceva andarle vicino, molto vicino, come per annusarla, come per intravederla, come per darle un’occhiata, così, per vedere com’era fatta…
   Lei buttava di solito mozziconi accesi intorno a sé, sdraiata sul letto, e naturalmente il pavimento era tutto pieno di carta e ogni tanto un mucchietto di carta cominciava a bruciare e lei non se ne preoccupava affatto, guardava il mucchietto di carta bruciare e si sincerava fin dove poteva arrivare, poi quando la cosa cominciava a essere pericolosa spegneva. Una volta mi trovai a casa sua, buttò un mozzicone, cadde su un cuscino a terra e il cuscino cominciò a fumare, poi venne fuori un po’ di brace e cominciò a infiammarsi…
   “Alda, il cuscino! Sta andando a fuoco!”
   “Stai fermo, non me lo toccare…”
   “Come? Alda, sta andando a fuoco il cuscino!”
   “Ti ho detto di stare fermo, guardalo soltanto…”   
   “Come guardalo! Va a fuoco la casa, Alda!”
   E rideva, poi, me lo lasciava spegnere. E così penso che fu quella famosa vicenda del gas che vide me per caso come protagonista, pure. Lei mi aveva chiamato quel giorno 2 o 3 volte già e si lamentava di un suo amico che non aveva avuto l’impegno di prestarle almeno 20 euro, 20mila lire, come diceva lei… “Ti rendi conto 20mila lire non me le ha date! Ecco che razza di amici che ho io! Con degli amici così cosa ci faccio?”
   Io cercavo di farle cambiare discorso, ce ne aveva tanti amici, comunque avevo capito che era una cosa grave, che se l’era presa veramente tanto e che era diventata veramente triste. Le avevo detto: “Alda, ti vengo a trovare, te le porto io le 20mila lire…” E me ne stavo lì già alla fermata del tram che dovevo andare a casa sua, quando all’improvviso ricevo la telefonata: “Addio, Giuseppe, non ci vedremo più. Ho aperto il gas…” E mise giù il telefono, non disse “sto per aprire il gas”, oppure: “aprirò il gas”. Disse “ho aperto il gas” e io mi immaginai la scena con lei che se ne stava lì sdraiata sul letto e il gas che fuoriusciva dalla cucina…
   Stavo lì alla fermata di via Palmieri, non sarei mai riuscito ad arrivare in tempo, neanche a prendere un taxi, così d’un lampo, quasi tremando, mi venne immediatamente il pensiero di chiamare i carabinieri che sarebbero arrivati in un lampo. Telefonai e dissi che Alda Merini era in pericolo, dissi pure che era il primo poeta della nazione, premiato dal presidente della repubblica Ciampi, captai l’attenzione del carabiniere in linea che mi disse: “Ci attiviamo immediatamente!” e così fu.
   Io nel frattempo arrivai sul Naviglio Grande dopo una decina di minuti, un quarto d’ora, io già da lontano vidi davanti a casa sua auto di pompieri, autoambulanza, 2 o 3 macchine di carabinieri, e io che quasi correvo, correvo andando verso casa sua. Mi ricordo che passai davanti alla farmacia del Tarantino, che stava sulla porta e mi disse:
   “Giuseppe, è Alda, vero?”
   E io gli risposi:
   “Sì, è lei!”
   E arrivai che il palazzo era pieno di carabinieri, di pompieri, vigili urbani, infermieri e Alda seduta sul suo letto tranquillissima. C’erano già là altri amici arrivati prima di me, che cominciarono a inveire:
   “Ma come? Credi alle cose che ti dice Alda Merini?”
   “Sì, io ci credo alle cose che dice Alda Merini…”
   “Ma lo sai che lei straparla! Come? Ti ha detto che lei si ammazza e tu ci credi? Ma lo ha detto anche mille altre volte e non è mai successo niente…”
   “A me non me l’ha mai detto in maniera così severa…”
   “Non dovevi chiamare i carabinieri! Lo sai che Alda fa di queste sparate…”
   C’era lì un maresciallo che sentì questi discorsi e venne da me…
   “È lei che ha chiamato?”
   “Sì…”
   “È lei D’Ambrosio?”
   “Sì…”
   “Non si preoccupi, ha fatto bene D’Ambrosio a chiamarci…”
   E non disse più niente… Io sentii chiaramente e l’avevano sentito anche altri, ma lo sentii chiaramente anche se ero arrivato più tardi degli altri, l’odore del gas in giro… Con le finestre della casa tutte spalancate… Era certo pure estate…
   “Ma sì, l’ha aperto…”
   “Non so… voleva fare un caffè…”
   “Ma no…”
   Comunque, fatto sta, che la ricoverarono nella clinica psichiatrica del San Paolo dove rimase più o meno 4 o 5 giorni. Poi accertarono la sua salute mentale intoccata e la lasciarono andare. Io naturalmente l’andai a trovare tutti i giorni e lì se ne stava tranquilla, lei, e anche il primo giorno, tutta tranquilla, la conoscevano tutti, sia i medici, sia i ricoverati…
   “C’è Alda Merini… C’è Alda Merini!”
   E lei che si mise a dar consigli a tutti, a scriver poesie per tutti. Ho da qualche parte quelle poesie che dettava. Lei naturalmente disse che ero stato uno sprovveduto, un bamba, a chiamare i carabinieri, perché poi, tra parentesi, gli staccarono il gas e non glielo riallacciarono più e per lei fu quasi un’offesa, una limitazione della sua capacità di gestire la vita e io naturalmente lasciavo dire le persone che dicevano:
   “Ah, ma che amici ti fai, Alda? Ma può essere che sono così cretini? Così rimbambiti che chiamano i carabinieri, così, alla chetichella, alla sprovveduta?”
   Io lasciavo dire, uscirono anche parecchi articoli sui giornali nazionali su questa storia: “Ad Alda Merini hanno tolto il gas per colpa di un amico deficiente…” E una volta quando stavo con lei nella clinica psichiatrica del San Paolo, lei naturalmente fumava e non poteva fumare, né in corridoio, né in camera, per potersi fumare qualche sigaretta andava nel gabinetto delle donne, si portava la sedia, mi diceva:
   “Dai, Giuseppe, vieni con me! Accompagnami!”
   “Ma, Alda! Ma è il gabinetto delle donne! Non posso venire io…”
   “Dai, dai, non c’è motivo che tu non possa venire, non violenti nessuno. Dai, dai, vieni con me, fammi compagnia!”
   E così ce ne andavamo nel gabinetto delle donne, ci sedevamo vicino alla finestra su due sgabellini rimediati lì nel corridoio, e seduti, e lei fumava, mi disse:
   “Perdonami, Giuseppe, che ti ho fatto passare per un cretino, perdonami che tutti ti danno dell’idiota, cosa che tu non sei assolutamente. Naturalmente, è vero, quel giorno ho aperto il gas, ho detto: “Mamma, come puzza la morte, è proprio brutta!” E dopo un minuto son tornata in cucina, dopo averti telefonato, e ho subito chiuso il gas…”
   “Non fa niente, Alda, l’importante è che tu stia bene…”
   E mi prese la mano e me l’accarezzò in un gesto che le era usuale… Mi chiamò pure il suo psichiatra, il famoso dottor G., il dottor Gabrici, lei mi diede il numero e insistette che l’andassi a trovare. E il dottor Gabrici, se pure avesse quasi 100 anni, mi ricevette in camice e mi chiese di quel giorno, io gli raccontai la verità e lui fece una relazione scritta che consegnò alle autorità, scrivendo naturalmente che Alda Merini era perfettamente in grado d’intendere e di volere. Anche quella relazione ce l’ho da qualche parte, lei lesse la relazione e poi me la diede a me. Alla fine si rassegnò a prepararsi il caffè con il fornellino elettrico, se ne lamentava sempre, ma la verità è che lei non cucinava mai, non sapeva assolutamente cucinare, non si faceva mai nemmeno il caffè, che si faceva sempre arrivare dai bar di sotto. Voleva avere solo la possibilità di cucinare.
   Certe volte comprava un pollo, lo metteva nella pentola e lo metteva a bollire e il pollo bolliva, bolliva, bolliva, l’acqua evaporava tutta e poi il pollo cominciava a bruciare, e bruciava, bruciava, finché diventava un pezzo intero di carbone. Certe volte quando arrivavo…
   “Alda, ma qui c’è un pollo che brucia sulla pentola!”
   “Sì, sì, sì, spegni, spegni! Cerco sempre di cucinarlo questo maledetto pollo e mai che mi riesca una volta!”
   E si metteva a ridere… Alda si faceva sempre fare la spesa sotto casa e mangiava prosciutti, panini, salami, dolciumi e molte volte quando voleva mangiare qualcosa di caldo mi chiamava…
   “Giuseppe, mi porteresti un piatto di pastina stasera?”
   Certe volte mi chiamava che erano le 10, e io dicevo a me stesso: “È Alda Merini che vuole un piatto di pastina alle 10 di sera, non è una pinco palla qualsiasi…”
   E allora le preparavo la pastina, la mettevo in una pentola con i piatti, l’avvolgevo in una pezza di cucina alla maniera dei contadini quando si portano il mangiare caldo in campagna e così andavo a casa sua. Alda andava matta dell’ossobuco e del risotto alla milanese e poi delle uova sode. Quando mi vedeva arrivare con il mio piccolo fagotto alla buona con dentro la pentola e i piatti, lei mi accoglieva sorridente e diceva:
   “Che hai portato di buono? Che hai portato di buono?”
   E io le dicevo:
   “Le uova sode…”
   “Oh, sì, sì, le uova sode!”
   Le uova sode le ricordavano la povertà subita nel tempo dello sfollamento, lì, dalle parti del Piemonte, che lei andava a raccattare le uova nei pollai dei contadini e i contadini che la scoprivano le correvano dietro e la volevano picchiare.
   Alda, durante il giorno, riceveva miriadi di visite, persone di tutti i posti d’Italia e anche di paesi stranieri. Una volta ho visto una professoressa austriaca arrivare da Vienna apposta apposta per lei e lei tutti riceveva se era di buonumore, se era di cattivo umore sbatteva la porta in faccia al malcapitato e lo mandava all’inferno.
   Una volta arrivò addirittura una deputata del parlamento cubano dall’Avana, apposta apposta da Cuba per lei. Lei la guardò in faccia e le sbatté la porta sul muso facendola rimanere di stucco. Per caso capitai io e lei mi pregò, che aveva fatto un viaggio inverosimile per vedere Alda Merini, e adesso veniva accolta in questa maniera allucinante. Io andai da Alda, le spiegai la situazione… “Non m’interessa!” disse lei. Io provai a farla ricevere, ma non ci fu verso, questa ragazza deputata andò a comprare una bottiglia di vino e io tornai su a portare questa bottiglia di vino, ma non ci fu verso, non la volle ricevere, io poi tornai giù per cercare di consolare questa ragazza e come capitava sempre Alda aveva un sesto senso, capiva le persone con un semplice sguardo e lei aveva ragione, questa qui era una mezza pazza, era venuta dall’Avana per scrivere un libro insieme ad Alda Merini. Io ci rimasi un po’ insieme, poi lei se ne andò per conto suo, e mi vennero dei dubbi che fosse una deputata e che fosse venuta dall’Avana.
   Era di sera che Alda rimaneva sola e allora mi chiamava. Certe volte parlavamo a lungo al telefono, ma certe volte voleva che l’andassi a trovare, e io l’andavo a trovare… Lei sdraiata sul letto o seduta in poltrona e io seduto a una sedia… su un minuscolo panchettino…
   “Oh, trova la prima sedia che becchi, siediti anche sul panco se vuoi…”
   E la sera lei voleva pregare, diceva le preghiere a Maria. E mi chiedeva sempre di andare a comprare le boccette di acquasanta del Duomo, io gliele portavo ed era così felice, prendeva l’acqua la spargeva un po’ sul comodino intorno al letto…
   “Scaccio il demonio…” diceva. “Oh, com’è pieno di demoni questo mondo, tu non immagini quanto!”
   D’estate andavo sempre via da Milano dopo ferragosto per non lasciare sola Alda. Alda aveva il terrore di rimanere sola a Milano e nella prima quindicina di agosto Milano è assolutamente deserta. Una volta Alda mi ha dettato un libro che s’intitolava “Il re delle vacanze”   pensavo che si riferisse a se stessa, ma ultimamente l’ho riletto per bene e non era a se stessa che si riferiva, ma a me. Non andavo via se non arrivava qualche altro amico che mi sostituisse per far compagnia ad Alda, che di solito era Manuel Serantes, il poeta cileno, un altro grande amico di Alda. Alda voleva essere voluta bene come persona, come donna, la poetessa era come un’ombra per lei, non aveva nessuna importanza, voleva che le persone le volessero bene perché era Alda, non perché era la poetessa Alda.
   Con lei io non ho mai discusso nessuna questione di poesia, non ce n’era bisogno. Per Alda la vita era la poesia e allora parlare di quelle cose minute, quotidiane, di quelle piccole e umili cose pratiche, per lei era quella la vera poesia, quella fatica del vivere, il giorno che arrivava. Lei aveva sempre questa frase al primo albeggiare del giorno: “Toh, ecco qui davanti a me un altro miracolo!”. Ora come ora i critici, i professori vari dicono un sacco di sciocchezze su Alda, non riescono a concepire, in fondo, la condizione di vita della stessa poesia. Alda ha dettato un libro a Vincenzo Mollica, altro grande suo amico, che s’intitola: “Più bella della poesia è stata la mia vita”, e non è una frase ad effetto, Alda credeva sinceramente e profondamente in questo.
   E non solo c’era la poesia nella vita, Alda pensava che nella vita c’era pure Dio e da qui viene la fortissima sua religiosità, che non è mai una religiosità bacchettona ed erudita. Ho visto parlare Alda con i maggiori teologi della nostra Italia e ho visto i nostri maggiori teologi battere ingloriosamente in ritirata davanti a lei. Ma Alda si sapeva difendere anche dagli altri bambaccioni, ciarlatani, mi ricordo che una volta un tizio andò da lei e disse:
   “Alda, ho visto Gesù Cristo, oggi…”
   E lei gli rispose:
   “Io invece stamattina ho visto Napoleone, l’ho trovato dimagrito, ma di buonumore…”
   Molti hanno parlato di Alda come una medium, io in queste cose non ci credo, per mia storia, per mia convinzione, eppure, ho assistito a certe scene che praticamente do ragione a queste persone che lo affermano. Dice Vincenzo Mollica: “Alda era di un altro pianeta”, e ha perfettamente ragione. Io nella vita a Milano ho avuto tanti amici, amici costretti, amicizie fortissime, amici che facevano tutto per me, ma posso ben dire pure allo stesso tempo che non ho mai avuto nella mia vita un’amica così potente e così affezionata come Alda. Mi telefonava sempre, dappertutto, fossi a Milano, fossi in Puglia, o fossi a Roma, o fossi in Sicilia. Voleva sempre sapere cosa facevo, cosa stavo facendo, cos’avevo mangiato, quando tornavo… “Quando torni, quando torni?”
   Alda è stata la più grande amica della mia vita, maschi compresi. Mi telefonava sempre a tutte le ore del giorno, anche 10 volte al giorno, anche di più. Io avevo sempre il telefono acceso di notte, certe volte mi telefonava a notte fonda, io dormivo, e lei mi diceva:
   “Giuseppe, stai dormendo?”
   “Sì, Alda…”
   “Oh, scusami se ti ho svegliato, ma volevo sapere se eri lì, se avevi il telefono acceso…”
   Voleva sapere se l’amico era là, presente, qualsiasi cosa le potesse capitare. E infatti una volta capitò che aveva bisogno, mi chiamò verso le 3 e mi disse che stava male, sentiva un dolore al petto, al cuore, le dissi:
   “Alda, chiama l’autoambulanza…”
   “No, no, no, non vado su un’autoambulanza se non vieni tu!”
   E così chiamai un taxi e mi precipitai da lei, chiamammo l’autoambulanza e andammo al Policlinico, i medici la salvarono, degli amici poi dissero in giro: “Giuseppe ha salvato la vita ad Alda…” A seguire lei mi son girato quasi tutti gli ospedali di Milano, ma Alda aveva una fibra fortissima, aveva mille malattie, ma tutte le superava. Adesso il telefono di casa mia non suona più, suona raramente, naturalmente. Quando c’era Alda suonava in continuazione. Devo confessare che ogni tanto faccio il pazzo e le telefono io, faccio il suo numero e mi risponde una voce che dice: “Il cliente da lei chiamato è momentaneamente assente, provi più tardi…” e a me mi sembra di credere a questo avviso, che Alda se ne stia in giro da qualche parte…
   Sul mio tavolo c’è una grande foto che mi ha regalato, lei che sorride, che si tiene al cuore un libro, il suo libro su San Francesco. Lei amava scherzare sulla morte, certe volte l’ho sentita dire a certe persone importune che le telefonavano: “No, guardi, Alda Merini non c’è. L’hanno ricoverata al cimitero…” e scoppiava a ridere e metteva giù. Lei diceva: “Il mio epitaffio è questo, voglio che sia scolpito sulla mia tomba: “Scusate se vi ricevo sdraiata…” così era lei, non gliel’hanno messo questo epitaffio, naturalmente.
   Gli ultimi tempi soleva ripetere: “Oh, Giuseppe, ci siamo voluti bene. Oh, come ci siamo voluti bene noi due, ah…” E poi scoppiava a ridere: “Ah, ma quanto ci siamo pure divertiti! Ci siamo proprio divertiti!” Quante volte mi mandava in giro a fare degli scherzi assurdi, delle cose allucinanti, tipo scherzi da studenti all’università, scherzi goliardici, ma che avevano a che fare sempre con l’amore. Alda si innamorava sempre, ma il suo era un amore di tipo particolare che sfociava sempre nell’amicizia e lei certe volte mi metteva con le spalle al muro…
   “Sei un mio amico?”
   E io dicevo:
   “Sì, sì, sono un tuo amico…”
   “Sei un mio amico? E allora non ti puoi tirare indietro!”
   E mi mandava in giro a fare certi scherzi a certi presunti suoi amici che le dicevano a parole di volerle bene ma che in realtà se ne infischiavano di lei. E io accettavo di mandare avanti gli scherzi, accettavo di farli e quando tornavo a raccontare le cose lei scoppiava a ridere…
   “Ma no, ma no! Non è possibile! Ha risposto proprio così?”
   “Sì sì, ha risposto così…”

   E scoppiava ancora a ridere, lo scherzo più usuale era di spaventare con potenti battute di spirito i suoi presunti amici, i suoi falsi e improbabili corteggiatori che sistematicamente la deludevano. A lei piaceva moltissimo essere difesa. Era così felice quando la difendevo davanti a tutti e davanti a tutto, si sentiva proprio contenta.
Giuseppe D'Ambrosio Angelillo

da "L'UOMO DI TERRA", 
libro intervista a cura di Maria Theresa Venezia,
Acquaviva 2014

lunedì 3 marzo 2014

giuseppe d'ambrosio angelillo L'UOMO DI TERRA Acquaviva

Acquaviva, Milano, la terra, i contadini, la Metropoli, Alda Merini, la scrittura, i sogni, l'Utopia, Dostoevskij, gli anni '70, i Beat, la vita on the road, la Poesia, i Romanzi...
Giuseppe D'Ambrosio Angelillo
racconta la sua vita
a Maria Theresa Venezia...

on Google play
a lettura libera:
http://goo.gl/ijEPYK



venerdì 26 aprile 2013

RECENSIONE DI MARIA THERESA VENEZIA su"L'EBREO NELLA NEVE" romanzo di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo


L’ebreo nella neve
romanzo
di Giuseppe d’ambrosio Angelillo

recensione di maria theresa venezia

   Impossibile restare indifferenti alla lettura di un romanzo di Giuseppe D’Ambrosio e anche questo ultimo suo lavoro non fa eccezione.
   Ci troviamo ad attraversare un impetuoso flusso che potremmo definire di “memoria” dalle differenti correnti che ci conducono ad approdare, talvolta, ma non sempre, nell’ isola dell’infanzia e della giovinezza dell’autore, dove vengono svelati ricordi, immagini, voci, dei genitori, dei fratelli, degli amici, dei compagni di scuola, tutti, mai dimenticati.
   Il romanzo è costruito su differenti piani, ma collegati da un filo rosso che occorre saper afferrare per poter tenere l’orientamento nel fantasmagorico labirinto della scrittura, si inaugura così fin dalle prime battute questo gioco al perdersi e ritrovarsi che prosegue senza interruzione, appena un attimo prima eravamo seduti a conversare con un improbabile personaggio ebreo in un quartiere della vecchia Milano e l’istante successivo eccoci negli assolati e gioiosi vicoli e piazze della amata Acquaviva!
   Questo déplacement, però non si limita alla dimensione dello spazio, ma viene a toccare anche quella del tempo, esattamente come accade in certi processi di pensiero caratterizzati da una potente metonimia.
   Il lettore si trova dinanzi a vertiginosi “punti di fuga” che potrebbero evocare non solo certe opere di pittura astratta, ma soprattutto alcuni pezzi musicali, barocchi e jazzistici ad un tempo, per cui l’intero romanzo è pittorico e musicale contemporaneamente, come ibridato con una suprema “maestria”.
   Giuseppe D’Ambrosio ha un grande pregio, ovvero, sa essere di una semplicità disarmante e quasi simultaneamente, come tutti i veri artisti, di una sofisticata eleganza, terrestre e aereo nello stesso tempo, così in questo straniante romanzo, straniante perché famigliare e alieno, solare e lunare, di natura cangiante e sfaccettata fino alla vertigine.
   Lo stesso autore a tratti sembra invitarci a seguirlo nelle sue epiche attraversate, affascinanti quelle sotto la neve, su cui ritorneremo, della città di Milano, rigorosamente, a piedi, camminando, e questa camminata rappresenta il momento, il tratto metaforico, di condensazione, di simbolo, del “movimento” a cui il lettore deve sapersi unire per godere appieno di questa opera particolarissima.
   Il fatto che lo scrittore venga spesso scambiato “per un ebreo”, potremmo definirlo un vero e proprio focus del romanzo, invenzione letteraria che giunge a far penetrare fin sotto la pelle l’unheimliche, l’in-domestico, la stranianza, l’estraneità, in cui D’Ambrosio è di volta in volta, di libro in libro, un vero e affermato maestro.
   Quindi “Un ebreo nella neve”, così, il titolo che richiama l’incredibile capitolo che forse riassume in sé tutto il senso del romanzo, capitolo di una straordinaria e commovente bellezza, in cui lo scendere della neve diviene quasi tattile, ci invade fisicamente, animando il paesaggio urbano, divenendo un personaggio di candida purezza.
   Quasi magica la neve, che viene a portar via la tristezza, la delusione, la grande malinconia di cui il protagonista è intriso, mentre abbandona una casa, per lui ostile, preferendo inoltrarsi nella notte e in questa neve celeste, che a poco a poco lo ricoprirà completamente.
   Tale è il momento di sintesi del libro, momento che sta a indicare come il sapersi staccare, il saper lasciare, salpare, mollando ogni ormeggio, abbandonando così “la terra ferma” delle sicurezze e delle convenzioni di qualsiasi natura esse siano, ovvero il saper trovare “l’ebreo” in ciascuno di noi, rappresenti una chance impareggiabile, da non rifiutare, mai, vincendo quella paura che talora costringe la nostra nave a stare ferma in porti sicuri ma opprimenti, quella parte della nostra natura più intima che aspira incessantemente a compiere quei passi nel profondo della notte e nella neve più fitta per poter andare incontro al proprio vero destino.
MARIA THERESA VENEZIA

on Google play
http://goo.gl/aD3rwm

sabato 19 novembre 2011

UN CUORE VULNERABILE recensione di Maria Theresa Venezia a "BETTY PAGE", romanzo di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo

Recensione di Maria Theresa Venezia a “Betty Page”, romanzo di Giuseppe D’Ambrosio







Ancora una volta Giuseppe D’Ambrosio ci inchioda alla lettura con un personaggio straordinario, il giovane protagonista del suo ultimo romanzo intitolato “Betty Page”, un autentico outsider, disoccupato, non-collocato, né collocabile, posto sotto un assedio fantasmatico incessante, un vero sognatore assolutamente dostoevskiano, attraversato da mille visioni e apparizioni che non cessano di fargli visita e di occupare notte dopo notte la sua casa e la sua mente, ponendo in essere un mirabolante teatro dell’assurdo a cui non viene opposta, suprema arte, alcuna resistenza da questa maschera tra le maschere, in un tessuto metropolitano sfilacciato e degradato, tossico, in ogni suo risvolto, respingente, che non offre nessun ruolo, nessun “lavoro”, nessun posto al suo tavolo da gioco, dove le carte sono sempre truccate.


Questo giovane, innamorato perdutamente e toujours della regina delle pin-up, l’oggetto del desiderio, par excellence, una trasfigurata Betty Page, che appare e svanisce, lo prende e lo lascia, lo tradisce e lo ferisce con un sapiente intrigo sottilmente torturante e terribilmente erotico, che lo stringe e lo costringe in una ragnatela di nostalgia, che con i suoi fili abilmente tirati lo rende completamente prigioniero, questo ragazzo ci mostra senza vergogna qualcosa che credevamo divenuto ormai inesistente, un cuore vulnerabile, per sempre scomparso nell’osceno supermercato dei sentimenti.


Questo splendido romanzo multilivellare, trionfo della dimensione immaginaria, in cui diversi piani di lettura s’intersecano, sa restare tuttavia ancorato saldamente al cosiddetto “reale” narrando alcune volte con rara spietatezza la tragedia esistenziale di un giovane uomo che non riesce, pur insistendo e non cedendo quasi mai allo sconforto, a trovare il “suo lavoro”, la sua collocazione simbolica e questo rappresenta appunto l’ancoraggio indiscutibile al nostro tempo, alla sua attualità, ed è proprio in questo sapiente farsi e disfarsi del nodo che lega queste due dimensioni, quella notturna vissuta con i suoi fantasmi e quella diurna in cui le esigenze della vita materiale picchiano duro che lo scrittore colloca il suo personaggio donandoci ancora una volta, non solo un momento di lettura indimenticabile, ma anche e di questi tempi non è poco, una lezione civile.

MARIA THERESA VENEZIA

on Google play:
http://goo.gl/UaPZKa

venerdì 25 luglio 2008

Il Professore di Filosofia


"Ottimo scrittore, ottimo filosofo, ottimo cittadino di una strana città di nome Utopia, vive nell'ombra dei suoi 1.ooo romanzi senza sperare un clamoroso successo...

Un uomo che vive in una Russia lontanissima, un umile Tolsoj italiano, un giovane patriarca, con mille anime al suo seguito che non ha mai comandato.

Vive in un limbo pieno di spettri vivacissimi e grandiosi. Pur avendo una massa sterminata di nostri fantasmi nella sua testa non è mai diventato un paranoico.

Anzi Angelillo è un contadino che cura con amore e passione la terra della sua arte in una metropoli assatanata, tra demonii e mascalzoni di tutte le specie.

I ciliegi e i mandorli in fiore delle sue opere sono un miracolo del suo cuore insonne, amici angeli sottobanco gli passano poi il salario del Poeta:

l'Amore che mai smette di sognare il Paradiso. "

Alda Merini


Guai, gioie e avventure di un docente di Filosofia nella disastrata scuola secondaria di oggi.

Sogni e perfidie di un'Italia maldestra che sembra sempre fuggire da se stessa.


(illustrato con aquerelli a colori)


Una recensione Highway5:


Scheda di lettura di “Il professore di filosofia” di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo, casa editrice Acquaviva, Milano, 2007

Se pensate che Giuseppe D’Ambrosio, alias Joseph K., “il monaco metropolitano con la paranoia per la filosofia”, con la scusa magari dell’autobiografia incominci a girare intorno al suo ombelico, be’ scordatevelo!
Qui si gioca il tutto per tutto e sempre a poste alte, sul filo dell’autoironia e la matassa si dipana senza il pericolo che si avvolga mai troppo su se stessa.
E così mettiamoci pure alle calcagna di questo professore di filosofia che si aggira come un semiclandestino, non solo nei quartieri di una Milano stravolta e irrequieta dove una signora per bene non si avventurerebbe mai, ma anche nelle sue incursioni all’interno delle vite marginali in cui s’imbatte dove non c’è mai squallore ma inaspettatamente luci e botti da Luna Park.
Amico lettore: è roba dura, testarda, è puro hardgroove e funk sparati in pista, a tutto volume, e – parola mia – qui nessuno muore soffocato dalla noia!
Giuseppe D’Ambrosio appartiene a pieno titolo a quella “generazione di furtivi” per cui un conto è il sentiero stabilito e un conto è quello destinato e potete scommetterci che è anche uno di quelli che – come direbbe Jack Kerouak – non sbadigliano mai e non dicono mai un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano…e cosa c’è di meglio in mezzo a tante mezze ombre?
L’intreccio della poco credibile carriera scolastica di questo insegnante che non studia ma sogna e per cui è proprio il sogno la vera e autentica filosofia è un plot davvero indiavolato dall’incontro con Falco Nero, il preside provocatore scolpito nella pietra che lo vuole morto ma viene rimandato all’inferno, fino al memorabile téte-à-téte con Lucifero in persona.
Ah, dimenticavo, le succose e parecchio sexy donnine da queste parti non mancano mai…
Con un libro così siamo in ballo e dobbiamo ballare fino in fondo, fino all’amen di questo iperbolico magnificat alla libertà che va sempre conquistata fosse anche nei termini estremi per cui per D’Ambrosio “l’uomo coraggioso è per strada a chiedere l’elemosina mentre il vigliacco è sulla poltrona di velluto rosso”.
A questo punto, siate sinceri, l’avreste mai pensato che la filosofia è un animale notturno? Lo avreste mai neanche lontanamente sospettato o vi avrebbe solo minimamente sfiorato l’idea? Per questo, leggendo lo straordinario e inaspettato romanzo di D’Ambrosio comincerete a capirne fino in fondo il perché, ma soprattutto capirete che – come direbbe Henry Miller – qui la vita ha sempre l’ultima parola.
Vi assicuro che è raro trovare uno scrittore così “contro”, nella fattispecie, contro tutti i sistemi, nessuno escluso e poi che sappia fare così il clown cucendo e ricucendo tante scene miste a sogni e fantasie a volte esilaranti a volte dolorose e tese come un pugno allo stomaco e sapendo alla fine mixare il tutto per sintonizzarsi sulla frequenza dell’uomo della strada.
Giuseppe D’Ambrosio non si smentisce mai, la sua è una ricerca costante, martellante della deriva attraverso quella di ogni personaggio e di ogni atmosfera, ci invita pagina dopo pagina a mescolarci all’incessante fluire, al movimento del suo pensiero senza fermarci a confrontare, analizzare o possedere, ci spinge a scorrere senza tregua attratti come da una calamita.
Ma penso che a questo punto siate pronti a capire la differenza tra i libri che sono buoni solo ad appannare gli occhi e quelli che servono a pulire, e bene, le vostre lenti, allora se così stanno le cose vuol dire che è venuto anche per voi il momento dell’incontro con questo meravigliosamente magnetico romanzo “out of everywhere” e con il suo imprevedibile autore: avete la mia parola, è una di quelle esperienze che ricorderete per un pezzo!


Maria Theresa Venezia


"Libro severamente vietato ai professori di Filosofia,

"tranne uno o due, naturalmente.)"

Prof. Joseph K.


Rivoluzione

Giuseppe D'Ambrosio Angelillo, a 17 anni

"Oh, amici miei... Non potete immaginare quale tristezza e quale rabbia invadano tutta la vostra anima, quando di una GRANDE IDEA, che voi venerate già da lungo tempo e come cosa santa, s'imadroniscono degli ignoranti e la trascinano sulla strada verso gente altrettanto stupida quanto essi stessi, e la incontriate improvvisamente al mercato degli stracci, irriconoscibile, nel fango, male esposta, di sbieco, senza proporzioni, senza armonia, zimbello dei fanciulli sciocchi! No! Ai nostri tempi non era così, e non era a questo che noi miravamo. No, no, assolutamente non a questo. Io non riconosco più nulla...




Il nostro tempo verrà di nuovo




e di nuovo avvierà su una strada sicura tutto ciò che oggi vacilla.




Altrimenti che sarà mai?"




Dostoevskij












ROMANZO SUL 1977








Sogni Utopie e grandi Speranze di un ventenne che credeva con tutto se stesso in un Mondo Migliore...




Guai, sconfitte e capitolazioni di una Meglio Gioventù che voleva portare la Fantasia al Potere...




e che invece se ne cadde a faccia a terra...








(edizione illustrata).








Una recensione di Highway5:

“RIVOLUZIONE” DI GIUSEPPE D’AMBROSIO, EDIZIONI ACQUAVIVA, MILANO, OTTOBRE 2007.


A leggere “Rivoluzione” di Giuseppe D’Ambrosio si corre proprio il rischio di farsi travolgere da una grande ondata creativa, politica ed esistenziale, libera da qualsiasi schema, struttura, griglia semantica e interpretativa.
E il modo migliore per vivere questa esperienza in pieno è proprio lasciarsi andare e trasportare dal continuum, dal flusso del suo linguaggio corporeo, vivo, sensuale, pulsante.
La punta più aguzza e la cifra di “Rivoluzione” sta nel fatto che “la Gioventù sarà sempre più potente di tutte le antiche sapienze”, perché “Gioventù è lotta, sempre…è l’orgogliosa estasi di poter fare a meno di tutto e di tutti, anche di toccare la terra con i piedi”!
E l’autore, l’ultimo “cavaliere libero e selvaggio” nel nostro asfittico panorama letterario ci aggancia da subito con il racconto estremo e trasognato del suo viaggio personale di ragazzo del sud all’assalto di una Milano spossante e fumosa di asfalto e misteriosamente labirintica, per farci la Rivoluzione.
È in questo sfondo metropolitano con i suoi personaggi disperati e le sue donne ammaliatrici e irresistibili che incomincia la caccia furiosa all’abbattimento del limite, nonché la scalata al cielo di un ragazzo che “vuole tutto”.
In ogni incontro, in ogni esperienza il nostro protagonista è come se gustasse estatico e senza ritegno la felicità assoluta dell’estremismo, scatenato come un funambolo assolutamente incosciente che gioca in contemporanea sulle tre corde, le uniche sue coordinate di viaggio, la libertà, il sogno-utopia e la speranza.
E devo dire che, forse, senza rendermene conto questo è il libro che aspettavo da molto, perché tratta per noi, ragazzi del ’77, degli anni più belli che ci sia stato dato da vivere, della modifica radicale del nostro vissuto, dell’utopia, del bisogno di giustizia, della rivoluzione sessuale.
E la sfida avendo a che fare con questo “materiale” è quella di raccontare senza definire, senza cadere nelle trappole dell’ideologia, senza la costruzione di mappe e geometrie, in un territorio in cui i vecchi orientamenti non tengono e non devono tenere più.
Forse si tratta di narrare attraverso frammenti con una scrittura che tagli – cut up – circoscrivendo ogni frase, lasciando parlare il più possibile le differenze.
“Rivoluzione” non è propriamente una storia, ma un percorso, un continuo e pressante incitamento, sollecitazione a “perdersi”, a gustare con l’autore l’ebbrezza estatica, dionisiaca, la felicità e la ricchezza di quegli anni irripetibili per cercare anche di capire in questo modo così unico le ragioni di una lunga primavera di intelligenze.
Nello stesso tempo, il resoconto immaginifico delle battaglie sociali del proletariato è un contro canto incalzante al diffondersi di determinati spunti della libertà.
A Milano si svolge l’epopea alla scoperta dei meandri stranianti e sorprendenti della città vissuta parecchio di pancia, con tutti i 5 sensi ben accesi, senza perdere nessuna occasione di godimenti meravigliosamente reichiani, non tralasciando il racconto dell’oppressione capitalistica, della comunità resistente, della rivolta che serpeggia ed esplode, della controcultura inarrestabilmente underground.
Il parlato è essenziale continuamente rimixato con un ritmo a volte di puro rap antesignano, furibondo hip hop da marciapiede, il lavoro è di uno smontaggio e rimontaggio a combinazione dove il materiale verbale pre-esistente alla scrittura vera e propria è di una potenza emotiva ed autenticità di sapore inconfondibilmente dostoevskijano.
Eppure gli anni della Grande Rivolta, ciò che li rende così affascinanti è che sono come un tempo che non ci vuole lasciare, e quello che D’Ambrosio sperimenta fino in fondo nel suo romanzo è questa capacità, qualità speciale di permanenza di quel periodo per chi lo ha vissuto.
La sua scelta linguistica incisiva e coraggiosa arriva a conquistare una musicalità, una sonorità espressive immediatamente riconoscibili tramite l’utilizzo di codici diversi uniti dalla tensione interiore di questa epica fuori dai canoni del buonsenso e del senso comune.
La sua maniera è calda, forte, energetica, fisicamente spudorata.
Trovi premonizione, intuito, istinto, senso della corrente, lui è dentro al farsi stesso della corrente metropolitana, dove navigano a vista le sue donne un po’ puttane e i suoi re clochard bevitori impenitenti, lui è come un surfer che partecipa a ogni evento, a ogni scontro non restandosene mai fermo a guardare dalla spiaggia.
Ha questo fiuto quasi animalesco, senso della strada, istinto di riconoscere fra tutte le onde quella che fa per lui, la sua onda, quella assolutamente da cavalcare, lungo giornate vissute senza schemi, senza regole da rispettare, senza conti da far tornare, qui è tutto Rivoluzione, tutti i parametri non funzionano più, è un black-out generale, un tilt a ripetizione come gli orgasmi delle sue belle.
Siamo in una situazione di frontiera avanzata nella quale le mappe convenzionali non tengono più, non ci servono più a niente e vi consiglio anzi di buttarle, perché si tratta di sviluppare l’istinto del pioniere.
D’Ambrosio ha indubbiamente aperto con questo libro un grosso spazio comunicativo, di grande potente energia, mescolando azioni, gesti, oggetti, parole, pensieri e cose tutti insieme fino a produrre un’alchimia artistica sempre più esplosiva.
Ecco perché vi suggerisco di fare questa esperienza lasciandovi trascinare fino in fondo in questa grande, gioiosa, estatica Rivoluzione.

Maria Theresa Venezia.