FEMMINE E CANI
1
Ero un pivello, studiavo filosofia ormai da cinque anni e non ci cavavo un ragno dal buco. Ci capivo niente e ci capivo tutto, m’inebriavo al sacro fuoco del pensiero, al sacro fuoco del nulla di tutta la sapienza dell’occidente, infatti mi chiedevo a che cosa servisse mai la filosofia se mai il bene comune aveva preso piede su quella sciamannata matassa che era l’anima degli uomini.
L’uomo libero non persegue il bene, persegue sempre i cazzi suoi e i frutti si vedono. Fango, melma e rottami vari fra cui noi stessi e così mi sembrava di andare a fondo per aggrapparmi a qualcosa cominciai a comprarmi i giornali pornografici.
Ero giovane, a cosa volete che pensassi, ragazzi, se non alla figa? E così accatastai montagne di giornali pornografici, in casa mia, là, in quella maledetta casa dei morti all’estrema periferia del Naviglio Grande. E m’inebriavo di pippotti, mi estasiavo di seghe con tutte le mie donne fatali sciorinate davanti a me e tutte a mia disposizione.
Vivevo in città da solo, la mia famiglia era lontana, là, nella Magna Grecia, dove tutto c’era fuorché il lavoro. Ma forse a pensarci bene anche questa poteva essere una grazia degli dei, ma gli uomini non ci capiscono niente e seguono il lavoro a tutti i costi per far che cosa? Non l’hanno ancora scoperto.
Avevo avuto storie a tutto andare a destra come a sinistra, in cielo come nei sotterranei, ma anche qui non ero riuscito in niente, meno che meno, avevo ventiquattro anni e potevo già essermi sposato e divorziato almeno trentotto volte.
Di buono avevo che finivo una storia non ci tornavo mai indietro, tenevo per santo quel giusto insegnamento della bibbia che dice che chi si volta indietro diventa statua di sale e io non volevo diventarci, una statua di sale incatramato.
E così andavo sempre avanti, senza mai voltarmi indietro, non volevo fare come Orfeo che perdeva le sue tipe soltanto per vedersele, lì, dietro di sé e riguardarle ancora una volta prima di uscire del tutto dall’inferno.
Ma io dall’inferno ci volevo uscire e se la tipa ci rimaneva dentro poco m’importava, perché era lei che bene o male ci era cascata dentro, io mi volevo salvare e se il rapporto se ne andava a puttane allora mi salvavo proprio con le puttane, ma non tornavo indietro, non guardavo alle mie spalle, guardavo sempre avanti. Questa era la mia ricetta per la salvazione e ancora la inseguo, perché poi, tutto sommato, imparai ben presto che a cambiare ci guadagnavo sempre.
Ne incontravo sempre di più belle e di quelle più intelligenti di quelle trascorse e fu così, forse, che incominciai a immagazzinare tutte le mie conoscenze sulle donne, che io mi ostinavo a chiamare femmine, perché tutto sommato ognuno ha la sua natura e una femmina è una femmina e vuole qualcos’altro che non invece quello che cerca l’uomo o il maschio.
Sia il maschio che la femmina da soli sono morti, è insieme che trovano la vita, io sono convinto di questo. Ne sento di almanaccamenti tutt’intorno a me, ma non mi convincono mica, io vado avanti come vi dicevo prima e non m’importa del resto, dopo tutto me ne sto zitto e mi faccio i fatti miei e non vado in contraddizione con gli altri, perché ognuno ha il suo sapere e ognuno ha la sua concezione e ognuno si tiene il suo, checché se ne dica in giro.
Io per conto mio mi accontento di un dolcetto a Natale e di una caramella a Pasqua, per il resto, le lasagne e i polli e i vitelli e le vacche arrosto se le sbafino allegramente gli altri.
A me mi bastano quattro lenticchie ed un po’ di contentezza nel cuore mio.
A chi mi chiede, rispondo, certo, ma non dico mai tutto quello che mi porto nel cuore, perché come diceva bene Platone: “Non tutti si meritano la verità”.
C’è pure chi vive di cazzate e di quelle si accontentano, ma l’anima ha sempre fame e con quella non bisogna fare i tirchi, bisogna dare tutto, perché anche una piuma di meno e quel quasi tutto diventa praticamente un niente.
Io rispondo, certo, ma ho imparato col tempo a tenermi per me la mia sapienza, perché può capitare poi il caso che a darla in giro la usano proprio contro di te.
“Stai nascosto”, dicono al mio paese di buzzurri cafoni contadini, “e pensa ai fatti tuoi, camperai di sicuro cento e undici anni”, e, secondo me, non hanno mica tutti i torti.
Vai pure a dare il tuo cuore agli altri e vedi cosa ti succede! Se lo friggono arrosto nella padella e se lo sbafano lì davanti a te con gran gusto e sogghigno e tu lì, rimasto senza cuore, a fare il coglione qualsiasi.
Il buono è quasi sempre un idiota e anche i santi non la reggono mica tanto per lungo questa manfrina.
2
Mona Figaelettrica, l’ho conosciuta un po’ di tempo fa, sempre lì, dalle parti della Statale, in via Larga. C’era il rosso e lei sembrava una puledra impaziente e io mi avvicinai con la mia faccia di tolla e semplicemente le dissi: - Ciao! - Lei si spaventò e diede un balzo all’indietro. Aveva visto il mostro, forse, e la profezia di tutto quello che si sarebbe avverato poi.
Ma io non demorsi, semplicemente feci un passo avanti e mi avvicinai di nuovo a lei, quel cagone del semaforo era ancora rosso per fortuna. E così potei dirle: - Ciao, mi chiamo Joseph K., e tu? – Lei fece una smorfia di disgusto e si allontanò ancora, ma io la conoscevo, la pollastra e sapevo come si comportava, così mi avvicinai di nuovo: - Allora, come ti chiami, è un segreto forse? – e allora, smozzicò un sorriso e mi disse: - No, nessun segreto mi chiamo Mona, e allora?
- Posso accompagnarti a casa?
- Se proprio non c’hai niente da fare, fa pure.
E così, l’accompagnai, là, nella metro. Ma lei, ogni tanto, dava uno scatto e sembrava quasi che mi volesse mollare da un momento all’altro, prevedeva tutto forse. Infatti fece sempre quello con me: scappare, scappare, scappare.
E io la inseguii e anch’io feci sempre quella cosa con lei: inseguire, inseguire, inseguire. Mai che s’incontrano due dello stesso avviso, uno per forza deve sempre scappare e l’altro per forza deve sempre inseguire: roba da matti!
Ma dopo tutto cos’è l’amore se non la più bella follia che possa essere mai data di vivere a questo dannato mondo.
Lei studiava filosofia come me e così perdevamo tutti e due tempo e giacché stavamo lì a perder tempo, perché non cercare anche allo stesso tempo di godercela e di trombare di volta in volta, così, tanto per cambiare un po’ la solfa di tutti questi grami giorni quotidiani.
Fame, sonno, rock-and-roll, quella era la vita mia a quei tempi. Studiavo filosofia e scrivevo romanzi, niente di eccezionale, sì, ma io ci davo dentro e scrivevo, scrivevo, ammassavo quaderni su quaderni, tutta roba che poi avrei tirato fuori, avrei cercato di almanaccare in un brogliaccio qualsiasi per tirar fuori la pagnotta da qualche parte.
Ma è difficile vivere con la propria arte in Italia, proprio perché, forse, siamo nel paese dell’arte. Qui l’arte ci esce dalle orecchie e se uno è un romanziere o un pittore non gliene frega un cazzo a nessuno, devi diventar famoso prima, nel frattempo, devi solo mangiare aglio, cipolla e il pane duro come la pietra e tu devi avere i denti più duri del macigno se vuoi andare avanti, altrimenti ti spaccano la testa e ti buttano di lato.
C’è già Michelangelo in Italia, cosa vuoi fare di più, tu?
Io, così, mi ero scelto il campo ben attrezzato: il romanzo. Non c’era mica Dostoevskij in Italia, e allora nella mia follia pensai: “Qui, posso fare fortuna”, ma non feci fortuna per una minchia, e così, allora, mi davo alle femmine.
Avevo ventiquattro anni e avevo già scritto quattordici romanzi, me n’ero andato in giro per parecchie case editrici di Milano, forse questo era il vero motivo per cui ero venuto qui in groppa al locomotore d’Italia, perché qui c’erano le più grandi case editrici della nazione e qui volevo combinar qualcosa, ma quelle non mi degnavano neanche d’uno sguardo, si prendevano i miei manoscritti, se li tenevano lì a stagionare per due o tre anni e poi me li restituivano dicendo che non andavano mai bene per loro.
E se per loro non andavano bene, per me invece sì. E continuavo. Non so se c’è stato mai uno scrittore come me nella storia della letteratura universale, ma credo di sì.
Poveracci che scrivono cercando di dare il proprio cuore al mondo e il mondo invece che neanche li degnava di uno sguardo se pur miserando e di compassione.
E così, per non far finire fuori la mia vena continuavo a scrivere almeno una quindicina di pagine di quaderno al giorno e li ammassavo, il titolo lo mettevo alla fine e non era la cosa più importante per me.
Per me, la cosa importante era il quaderno compiuto e la parola “fine” messa alla conclusione della storia.
I miei amici mi consideravano tutti un fuori di cotenna, un pazzo rifinito e completo in attesa del manicomio giusto.
Forse avevano ragione loro, ma forse neanche troppo, perché quasi tutti i miei amici erano degli scoppiati che non erano capaci di combinarci nulla, né con l’arte né con la vita e anche con le donne.
Lì vicino alla mia casa dei morti in fondo al Naviglio, in quel palazzo dei morti dove abitavo avevo come vicini di casa Rita la Siciliana e il suo compagno Salvatore Siciliano e loro quando mi vedevano troppo magro mi venivano sempre a portare un piatto di spaghetti o un pezzo di coniglio al forno o un trancio di torta fatta in casa. Era gente brava, gente che si preoccupava del proprio prossimo, Rita veniva da me e bussava e diceva: - Joseph, hai mangiato oggi?
Io dicevo: - Sto per cucinare.
- Non cucinare, Joseph, che io ho già cucinato, tieni, mangiati anche tu un bel piatto di spaghetti al pomodoro.
E veniva con un piattone colmo perso di spaghetti al pomodoro e me lo metteva sul davanzale della finestra.
Io dicevo: - No, no, Rita, ma che fai? No, no, non ne ho bisogno.
- Sì, che ne hai bisogno, amico mio! – diceva lei. - Sei magro come un chiodo.
Rita era divorziata e aveva anche due figli, ma un giorno aveva cacciato via tutti.
Al figlio, una volta, gli disse: - Tuo padre t’ha fatto con la lingua, neanche il cazzo mi ha messo in figa, per far venire un balordo come te fuori.
Quando si metteva a bestemmiare, Rita era davvero tremenda, ma quando non bestemmiava era una donna molto buona, almeno con me.
Rividi Mona Figaelettrica qualche settimana dopo. Io, nel frattempo, devo confessarvi, a malincuore, che mi ero laureato, non a pieni voti, ma con una certa gloria, con una gloria che avevo immediatamente buttato nella spazzatura.
Mi ero laureato in Utopia e così avevo cominciato pure a insegnare e a fare conferenze. E quella volta me ne stavo lì, in una libreria di corso Buenos Aires, una libreria che si chiamava “All’Osteria dei Liberi Pensatori Greci”, sì, perché si beveva pure in quella libreria, anzi, soprattutto si beveva, e in un secondo tempo, se ne avanzava, si vendevano libri.
Io ero preparato, non prendevo sotto gamba il mio mestiere, il mio mestiere di sparatore di cazzate. E andavo lì e facevo le mie belle cose.
Mandava avanti quella baracca un mio amico che si chiamava Piscator ed era un fanatico di teatro, e viveva con una ragazza sarda, bellissima, mora, alta e ben fatta.
Quando arrivai, mi disse: - Cazzo, Joseph, ho fatto il pienone stasera, ho avuto tante di quelle prenotazioni che ci faremo un bel incasso, un bel incasso per farci una bella cena in tutta tranquillità.
- Bueno. – dissi, io.
Pensai fra me e me: “Non è che alla chetichella divento famoso a Milano”.
“Sì, famoso”, mi disse un mio demonio interiore, “famoso come un pagliaccio di circo equestre”.
“Ma non è che stiamo per sfondare?”, mi disse invece un angelo.
“Sì, per sfondare”, disse il demonio, “per sfondare sotto il pavimento e finire in una fossa”.
E allora scacciai via quei due rompicoglioni e mi toccai le palle. E mi accinsi a fare la mia bella conferenza su Musil.
Eh, certo, sì che ne almanaccavo di pensieri di pensatori in quel camino da campo di sterminio che era la mia casa.
Mi misi a sciorinare i miei rosari e andai avanti per un bel po’.
La platea era veramente affollata e non so cosa avevano pagato, un biglietto, una sottoscrizione, qualcosa del genere, e Piscator e la sua ragazza sarda erano davvero contentissimi.
E lì mi accorsi che c’era anche una figa elettrica, era venuta ad ascoltarmi anche lei, e quando feci una pausa nella conferenza, sì, ragazzi, perché dovete sapere che io ero capace di far conferenze lunghe almeno due ore e mezzo, e certi si rompevano i coglioni e andavano via, certi si mettevano a sbadigliare, certi si mettevano pure a dormire, ma c’erano pure certi che mi seguivano di filato e fedeli fino alla fine con tanto di occhi sgranati.
E lì, c’era Mona, Mona Figaelettrica, bellissima con i suoi capelli castani lunghissimi, come una mantellina autunnale sulla sua spalla e il suo naso perfetto e quell’accenno di verruca al lato e gli occhi vispi come una dea.
Brillava di luce erotica come una stella della notte e io mi sentivo tutto turbato a guardarla. Una figa elettrica nei suoi pantaloncini attillatissimi, da ballerina di avanspettacolo e i suoi capelli cascanti sulla fronte a tirar baci a tutti maschi dell’intorno e il suo parapetto niente male.
Si avvicinò e io le dissi: - Ciao, Mona, ti fai vedere più tardi, che ti riaccompagno a casa un’altra volta?
Lei fece una smorfia, ma sorrise e se ne andò senza dirmi niente. Ma io la conoscevo la mia bella pollastra, sapevo come si comportava, mi avevano raccontato lì, alla Statale, faceva la difficile, ma ne aveva ben donde. Mi avevano detto che era vergine e che aveva ventun’anni e che non si decideva ancora a darla a nessuno.
E io mi ero messo in testa che forse l’avrebbe data a me, ma nel frattempo piantavo granturco nell’acqua e non ci facevo nulla.
Se ne andò senza che avessi finito la mia conferenza. Io attaccai col secondo tempo, ma non avevo più voglia come prima.
Ci furono altre donne che vennero a chiedermi qualcosa più tardi, se Musil aveva la Seicento, se a Musil piaceva la pizza Margherita, se Musil guardava il telegiornale, robe di questo genere.
Piscator, comunque, mi diede i soldi per la cena e mi regalò un libro, un libro di filosofia, che non avevo mai sentito, ma io a quel tempo leggevo solo i miei maestri, del resto me ne fottevo.
Così la conferenza e la serata finirono e io me ne andai a Porta Venezia a prendere il 29 per tornarmene a casa mia.
4
Stavo scrivendo, a quel tempo, il mio libro di mille pagine su Spinoza, passavo tutte le notti a lavorare e dicevo a me stesso che ero molto fortunato a fare lo scrittore e non l’operaio alla fonderia di Affori, come avevo sperimentato amaramente un paio di anni prima.
Mille volte meglio stare al caldo con le mani pulite e la faccia bianca che non nel rovente inferno della fabbrica con la faccia sporca di fuliggine e le mani nere di carbone, se non peggio, mezze ustionate.
Anche se ero un uomo povero mi reputavo davvero un uomo molto fortunato, qualche libro riuscivo a scriverlo, qualche libro riuscivo pure a venderlo senza guadagnarci chissà che, certo, ma almeno facevo il mio lavoro che mi piaceva.
Così, una di quelle sere mi telefonò Piscator e mi disse: - Ehi, Joseph, che minchia stai facendo?
E io risposi: - Come al solito, sto studiando, scribacchiando, menandomi l’uccello, cosa c’è?
- Sai, chi ho qui con me?
- No, chi è che è con te? Non sono mica un veggente!
- C’ho la tua vecchia fiamma, la tua vecchia antica fiamma, ma sempre nuova.
- Che cazzo dici!
- Sì, c’è qui Mona Figaelettrica che ti vuole parlare.
- Perché è a casa tua?
- Perché è amica mia, lo sai.
Mi misi a tremare seduto al letto dove stavo rispondendo al telefono.
- Quanto ci metti ad arrivare? – mi chiese Piscator.
- Mezz’ora, salgo sul primo tram che passa.
- Ti aspettiamo. – fece lui, e riattaccò.
Ci misi venti minuti, invece. Mi misi a correre con l’anima penzoloni fuori. Arrivai a casa di Piscator e la vidi là, seduta a un tavolo con i suoi meravigliosi capelli lunghi castani, il suo sguardo languido e la sua aria di stravaccata, una posa erotica da Mille e una notte.
E la ragazza aveva dei lampi di pazzia nel suo sguardo, eppure, allo stesso tempo, sembrava una madonna del rinascimento venuta lì, nei nostri tempi, a fare uscire fuori di testa qualche centinaio di uomini, o meglio, soltanto coloro che riuscivano a capire quale immane tesoro quell’astuta femmina si portava nel cuore e tra le mani e sul petto e tra le cosce.
Quella donna era la perfezione della natura, ma non se ne accorgevano mica tutti, soltanto qualche cervello fine e qualche miracolato come me poteva percepire tra tutte le vibrazioni quella precisa che emanava da lei, la potenza stessa del cielo e dell’inferno, dell’amore e della perdizione, dell’estasi e della dannazione.
- Mona scrive racconti.- mi disse Piscator. - E vuole farti vedere qualcosa di suo.
Pensai tra me e me: “Ma perché ha messo di mezzo Piscator, perché non me li ha portati direttamente?”
Ma poi pensai pure che lei era una tipa tutta particolare, una tipa molto originale e molto difficile e complicatissima.
La sua bellezza era davvero un enigma e tale la faceva rimanere per sempre a tutti coloro che l’avvicinavano come avrei imparato benissimo parecchio tempo più tardi.
Mi sedetti vicino a lei e percepii l’estrema possanza della sua presenza, era troppo figa, mi faceva arrapare fin delle più ultime fibre del mio stesso esistere, ma lei era tutta tesa a presentarmi i suoi racconti.
Erano dei racconti gotici, pieni di streghe, di folletti, di gnomi, di cose strane. Lei con quei racconti mandava un messaggio che io non riuscivo a capire e certamente aveva una fantasia sessuale molto particolare e quella voleva comunicare, ma in quel labirinto informe dei suoi racconti non ci capivo un’acca, erano tutti arzigogolati, involuti, almanaccati all’eccesso, non si capiva niente, i personaggi tutti chiamati per nome, nomi comuni, non avevano niente di particolare se non la rarefatta astrazione del loro particolare richiedere che risultava alla fine inaccessibile.
Solo il gotico era chiaro, il tenebroso e il nascosto.
“É una dionisiaca”, pensai. Ma questo lo sapevo già da prima senza aver bisogno di leggere nemmeno una riga dei suoi racconti.
Lei, certamente, era una donna completamente pazza e cercava di comunicare con l’esterno attraverso i suoi racconti, voleva raccontare la sua verità, ma la sua verità la nascondeva sotto strati e strati di migliaia di parole incomprensibili.
Piscator mi domandò: - Sono belli, vero?
Io dissi: - E come no? Certo, sono bellissimi.
Mentivo spudoratamente, era lei bellissima, i racconti a mio scomodo parere facevano letteralmente schifo, perché se tu vuoi raccontare qualcosa e non fai capire niente allora è meglio che stai zitto. Ma, naturalmente, la cosa non finiva lì per lei e per me, lei voleva comunicarmi qualcosa e io non riuscivo a decifrare il messaggio, ma accettai la sfida e così accettai pure di leggere quella raccolta forsennata di racconti gotici.
Erano centosette, per la precisione e ognuno era più di trenta pagine, avrei dovuto passare qualcosa come due mesi per leggere tutta quella roba.
Erano duemilacinquecento pagine, non credo che la più grande scrittrice del mondo di racconti abbia mai scritto una mole così forsennata di racconti, dissi tra me e me: “Questa è completamente pazza! Ma pure uno scotto bisogna pagarlo, perché è pure una femmina meravigliosa e fantastica”.
Venne fuori dalla massa di esseri sterminata della mia anima il solito demonio: “Ma che messaggio enigmatico d’Egitto, maledetto stronzo, quella vuole dirti soltanto una cosa, che vuole trombare!”
Venne fuori anche l’angelo, che mi disse: “C’ha ragione, il cretino, quella donna vuole essere amata e ha scelto te, non sei contento?”
“Cretino sarai tu”, disse il demonio all’angelo. “Quella vuole solo trombare, altro che amare, tu sei fuori dal mondo”.
“Tu non capisci mai niente”, disse l’angelo.
Scoppiò tra di loro una rissa tremenda e s’inabissarono tra le folle inverosimili degli esseri che abitano nella vita mia.
Piscator mi disse: - Allora che ne dici, Joseph, accetti di leggerli?
- Sì, va bene, ho già detto di sì. – dissi io.
La guardai e lei sorrideva con la sua bocca dalle labbra sottili e terribilmente erotiche.
- Poi, se faremo soldi con questo libro. – disse Piscator. – Ricordatevi di me, perché c’entro un poco anch’io.
- Certo. – disse lei.
- Certo. – dissi io. E ci guardammo io e lei e fu un cozzar di scintille e un fracassar di magli, era davvero una superfiga e a me mi faceva semplicemente venire il terrore a pensare di poter amare una donna del genere.
Era semplicemente strepitosa, aveva una magia dentro e la irradiava tutt’intorno, la magia dell’amore e dell’eros a un tempo, il suo sguardo ti metteva i brividi addosso o era semplicemente forse la prima volta che m’innamoravo veramente nella mia vita.
Con nonscialanza feci scivolare la mia mano sotto il tavolo e le toccai la coscia, lei sobbalzò e su di me scaricò una ventata di energie che mi fece fremere sulla sedia pure a me.
Pensai: “Questa donna è come se avesse degli strani poteri dentro di sé, ma niente di soprannaturale naturalmente, è semplicemente la strana e conturbante presenza di Eros”.
Ce ne rimanemmo lì a parlare del più e del meno, cazzate su cazzate, minchiate su minchiate, tipo cosa faceva il tale professore, che tempo avrebbe fatto domani e quale programma era stato interessante l’altro giorno.
E io trovavo tutto interessante, perché era lei il mio vero interesse. Alla fine si fece tardi e Piscator mi congedò, lei sarebbe venuto il padre a prenderla, dopo tutto, era ancora una ragazza vergine e il padre ci teneva moltissimo a lei.
Io, così, li salutai, pieno furioso di tutte le sensazioni che avevo accumulato e me andai a prendere il mio solito tram sgangherato e me tornai a casa pensando di essere l’unico vero padrone dell’intera città. L’avevo toccata, le avevo toccato la coscia, non era nulla, ma era una grandissima cosa per me, era l’inizio.
Arrivato a casa, mollai il malloppone sul mio tavolo, era qualcosa d’incredibile, una massa inverosimile di fogli, comincia a leggere qualche pagina, c’era richiesta di sesso e di eros a ogni minima lettera stampata là sopra.
C’avevano ragione sia l’angelo che il demonio installati nella mia anima, lei era davvero una potenza della natura. Lessi di qua e di là, non ci capivo niente, ci capivo soltanto che dovevo farci l’amore con quella femmina e lì tirar fuori fino all’ultimo centesimo della mia anima disperata.
Andai alla finestra e guardai fuori, c’era una notte così tenebrosa che non si vedeva e non si scorgeva alcunché, i lampioni avevano delle luci così fioche che non si riusciva a distinguere nulla se non il ricordo della propria immaginazione del contorno dei vialetti e delle panchine di quel misero parco dietro casa.
Alla radio furoreggiava il rock-and-roll e quel grandioso pezzo che si chiama “Cocaina” di Jay-Jay Kai.
Il titolo della sua mega-raccolta di racconti era “Dolci veleni”.
5
Una sera, molto tardi mi arrivò una telefonata: era lei. Era la prima volta che mi telefonava, il numero doveva averglielo dato Piscator. Non mi chiese niente della raccolta, mi telefonò e cominciò subito a recitare una poesia o l’inizio di un racconto poetico, non lo so.
Andava più o meno così: “Tu sei dietro la finestra fermo e cerchi giustificazioni per tutto quello che fai, tu vuoi scavalcare la mia testa, ma non sai che esiste un’altra persona, un’altra persona che mi guida da un capo all’altro del mondo, per mari e per montagne, tu c’hai l’occhio vigile come un cane, tu come un cane vuoi il vino e la scomparsa, tu vuoi il mio esaurimento, ma io so che dietro i tuoi occhi c’è un muro e dietro quel muro un terremoto e sul terremoto c’è il traffico caotico del tuo occhio che vuole fare sesso, i tuoi occhi vogliono fare sesso con tutti, adesso tu ti sei fissato con me, ma io non so cosa vuoi da me, forse solo mi vuoi tracannare come un bicchiere di vino rosso e io, a questo punto, voglio solo chiederti: Perché mi vuoi tradurre e cosa vuoi veramente da me, cos’è che mi vuoi veramente dire? Tu sei dietro la finestra che guardi la notte e io sono soltanto una donna che vuole esortarti a non fare niente”.
Io rimasi di stucco a sentire queste parole, non me l’aspettavo, forse lei era mille volte più brava di quel che minimamente sospettavo, allora non era soltanto pazza, era anche una grande poetessa.
Poi cominciò a parlare di un trans che abitava dietro casa sua e che le suonava il rock-and-roll con una vecchia chitarra elettrica e diceva che questa persona aveva una pensione in alta montagna e lì riceveva uomini e donne.
Io pensai tra me e me che forse in lei covava pure qualche oscura perversione e mentre facevo questo pensiero, lei stranamente riattaccò.
Io non sapevo il suo numero di telefono e quindi non potei ritelefonarle. La sera dopo qualcuno bussò alla mia porta, guardai l’orologio, erano le nove passate, pensai che fosse un ladro, allungai la mano alla cucina e afferrai un coltello: - Chi cazzo è? – chiesi.
- Sono io. – fece una voce flautata.
- Io chi, cazzo?
- Io, Mona.
Mi sciolsi letteralmente, buttai di lato il coltello e andai lesto come un gatto ad aprire la porta. Lei mi apparve in tutto il suo splendore, era agghindata da super-donna. Io la feci accomodare, profumava di primavera, d’incenso, di perdizione dorata. Lei si sedette a una sedia sgangherata della mia tavola, io mi sedetti davanti a lei, sul mio tavolo c’era la sua mega-raccolta di racconti, ma lei non la degnò nemmeno di uno sguardo.
“Mona, sei troppo figa”, pensai tra me e me che mai l’avrei posseduta, che era troppo bella per un cafone come me.
Ma d’altronde pensai pure che le donne troppo belle non avevano mai sempre un gran concetto di sé e allora anch’io c’avevo la mia carta da voltare. Lei brillava come la prima stella della sera, io nereggiavo come un carbone dell’inferno, pronto per attizzarsi e prendere fuoco.
- Sono venuta per un minuto. – disse lei.
- Va bene. – dissi io.
- Voglio dirti soltanto una cosa. – disse lei.
- Va bene. – dissi io.
- E
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