regala Libri Acquaviva

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CHARLES BUKOWSKI, Tubinga, MARC CHAGALL, Milano, ALDA MERINI, Grecia, Utopia, ROMANZI, Acquaviva delle Fonti, RACCONTI CONTADINI, America, POESIE, ERNST BLOCH, Sogni, Gatti Pazzi, Spinoza, FEDOR DOSTOEVSKIJ, ITALIA, New York, FEDERICO FELLINI, Poesie di Natale

giovedì 20 giugno 2019


PAOLA BOTTO
un racconto

Non so se lui potesse definirsi semplicemente un libraio.
Né se libreria poteva dirsi quella bancarella traballante allestita quasi con protervia in faccia al megastore di un arcinoto gruppo editoriale.
Poche spanne verde mela su cui si impilavano uno sull’altro i suoi libri colorati, insolenti e spavaldi, tanto da sembrare vivaci scolaretti che si spintonano allegramente per raggiungere la prima fila e lasciarsi ammirare dagli occhi di chi passa.
Filosofia, poesia, un po’ di Oriente, raccolte imperdibili di haiku giapponesi, libri minori di grandi autori indimenticabili, Joseph Roth, Franco Fortini, Robert Frost, persino poesie di Nietzsche e scritti letterari di Raffaello. Grandi opere che l’editoria ufficiale snobbava da tempo, e che quel libraio/editore ambulante tirava fuori dal cilindro magico della sua passione e della sua perizia artigiana.
Copertine dipinte a mano su una spessa carta fuori moda, in alcuni casi battuta ancora a macchina, pagine e pagine che raccontavano tutte di un amore smisurato per la poesia e la letteratura, con qualche refuso qua e là che nessun correttore di bozze avrebbe mai visto, esposte con sfrontata baldanza di fronte a quella potenza indiscussa dell’editoria che le stava di fronte, due o più piani di grandi bestsellers internazionali dalle copertine lucide e patinate.
Un banchetto di un metro o poco più nel bel mezzo di una grande piazza di una grande città.
Per lui forse la definizione di libraio sarebbe stata troppo, o forse troppo poco.
L’unica certezza è che dalle maglie della sua rete di pagine scritte io sarei rimasta imprigionata, e che ancora una volta si stava compiendo nel mondo degli uomini quello strano sortilegio che la letteratura, spesso, sa imbastire.
In quei giorni mi sentivo agitata da “astratti furori”, ingurgitavo romanzi e racconti alla ricerca di qualcosa che continuava a sfuggirmi, uscivo dalla lettura di qualche grande classico russo come si esce da un corpo a corpo, mi buttavo con ardore nella meraviglia della letteratura americana per riprendere il respiro, mi immergevo nella balzacchiana commedia umana come un soldato al fronte, e di tutte quelle pagine ardenti mi innamoravo ogni volta con rinnovata passione.
Ero sempre stata una divoratrice di storie, nella mia vita di lettrice avevo mescolato Tex Willer a Jack London, Philip K. Dick a Tolstoj, la lettura aveva sempre rappresentato un sottofondo musicale senza il quale la mia giornata stentava a trovare il ritmo, ma era dai tempi dell’adolescenza che non assumeva per me l’esatta misura dell’esistenza.
Assieme a questa bulimia letteraria, a me non nuova, c’era qualcos’altro poi che al mio interno assumeva le connotazioni di un richiamo.
Continuavano a farsi strada ricordi sepolti dell’infanzia, il rapporto mai risolto con mio padre, il dolore mai del tutto espresso per la sua morte, per la quale provavo un vago senso di colpa, e di risentimento. Sentivo forti dentro di me i richiami del sangue, cercavo tracce di nonni mai conosciuti e conducevo ricerche genealogiche. Cercavo nelle soffitte vecchie foto e documenti senza sapere a cosa attribuire la strana inquietudine che mi abitava.
Solo molti mesi dopo ne avrei capito l’esatta ragione. “Era questo, allora”, mi sarei detta, arrendendomi alla sua logica ineluttabile.
Ma il giorno in cui mi imbattei nella bancarella verde il mio destino aspettava tranquillo, dandomi il tempo di trovare il modo di regolare i miei conti.
Mi aggiravo un po’ spaesata in quella piazza enorme, avevo a disposizione un’oretta scarsa e volevo dare la classica occhiata veloce ai negozi.
Subito non lo notai.
Era stata l'insegna di quel grande magazzino librario ad attirarmi, come sempre per me più allettante dei tanti negozi di moda nei dintorni, ma quando arrivai a pochi passi dall’entrata il mio sguardo fu attratto da un banchetto posto a pochi metri di distanza, pieno zeppo di libri multicolori, insoliti e seducenti.
Mi avvicinai con la curiosità e il rispetto che provo sempre di fronte alla pagina scritta.
Tra tanti titoli più o meno conosciuti ne individuai uno che qualche mese prima avevo cercato invano nella libreria presso la quale solitamente mi rifornivo.
Lo presi in mano studiando quella strana edizione dall’aspetto così inconsueto, lo sfogliai, me lo rigirai dubbiosa tra le mani. Era un libricino di poche pagine, la quarta di copertina riportava scarne parole dal significato quasi criptico, e all’interno riportava schizzi e illustrazioni molto suggestive.
A quel punto fu l’anomalo libraio a venirmi in aiuto.
“Ti interessa Dostoevskij? Quello è un breve racconto, ho anche romanzi giovanili, racconti lunghi. Ho molte cose che lo riguardano.”
Da uno sgabellino minuscolo posto dietro alla bancarella si era alzato un uomo altissimo, sulla sessantina, con una folta barba brizzolata, profondi occhi scuri sorridenti e mani enormi.
Sembrava un antico filosofo, o un pazzo scatenato.
Gli dissi che si, ero interessata al vecchio Fjodor, di cui avevo letto parecchio ma non tutto, e quell'omone dalle grandi mani si mise a rovistare dentro a una vecchia borsa a rotelle posta dietro al banco.
Altri ne aveva a casa, mi disse, e mi spiegò in poche parole quanto fosse difficile quella strana vita di libraio di strada, impossibilitato com’era a trascinarsi dietro tutta la mercanzia di cui disponeva. La sua voce era profonda, calma, gentile, e cominciai a considerarlo più filosofo che pazzo scatenato.
Confessò di averla davvero una laurea in filosofia, e di aver studiato a lungo le tematiche che ricorrono negli scritti del grande narratore russo, di averne studiato la vita, più appassionante dei suoi romanzi, di aver approfondito tutto il suo pensiero, e di essersi convinto che fosse un grande umanista. Parlammo a lungo della Russia zarista, del romanticismo ottocentesco da cui non ci si fosse mai veramente allontanati, dell’umanesimo italiano, erede del pensiero classico e fonte ispiratrice di tutta la cultura occidentale. E ovviamente facemmo qualche battuta sul cinismo imperante dei nostri tempi, quasi ci sentissimo reduci di un passato più coinvolgente e appassionante.
Tutto questo mi riportava a mio padre, vecchio socialista di altri tempi che aveva sacrificato tanto di sé alla passione politica e all’amore verso un’idea tanto bella quanto irrealizzabile.
Lasciai la bancarella tra una chiacchiera e l’altra col mio “Il contadino Marej” in mano e la promessa di tornare. Impegni di lavoro mi avrebbero trattenuto in quella città per tutta la settimana e l’idea di una nuova chiacchierata mi stuzzicava.
Lessi il racconto quella sera stessa. Era un racconto semplice, bellissimo, commovente come tutta l’opera di Dostoevskij, e mi aveva lasciato una sensazione di serenità e di dolcezza come da tempo non provavo. Mi colpì molto.
Tornai alla bancarella la sera dopo, decisa ad affidarmi a quello che ormai consideravo il mio libraio di fiducia.
L’uomo altissimo era ancora la’, posto in piedi dietro alla bancarella verde, e nello scorgermi dal suo barbone incolto spuntò un sorriso.
“Allora, come t'è sembrato il raccontino?”
Gli spiegai quanto mi avesse colpito, che sensazioni mi aveva lasciato, il mio stupore nel constatare quanto un libricino di così poche pagine fosse riuscito a scavarmi dentro e a risvegliare in me sensazioni dimenticate.
Parlammo ancora a lungo, chiesi conto di quelle illustrazioni, scoprii che anche quelle erano opera sua.
Parlammo di vita e di libri, di relazioni umane e di letteratura, gli parlai anche delle strane ansie che da un po’ abitavano la mia anima, e vidi il suo sguardo profondo farsi più attento.
“Se ti va, potresti dare una letta a qualcuno di questi libri, li ho scritti io. Una semplice narrazione sulla vita e l’opera di Dostoevskij, sono scorrevoli, niente di troppo cattedratico, se ti appassiona lo scrittore potrebbero piacerti.”
Mi lasciai convincere facilmente, io che non leggevo quasi mai niente che non fosse narrativa pura, e me ne tornai all’albergo con un libretto autoprodotto che faceva parte di una serie di nove, ognuno riguardante una parte della vita e dell’opera dello scrittore russo.
“Se scrive come parla”, pensai, “con quel tono serafico e gentile che ti accarezza i sensi, non dovrei faticare a trovare il ritmo giusto”.
Quella sera spensi tardi la luce sul comodino, e lo stesso feci le sere successive. Qualcosa era scattato, durante una normale trasferta di lavoro, tra le corde della mia anima, e più leggevo le pacate elucubrazioni di quel libraio/editore/narratore più sentivo qualcosa risvegliarsi dentro. Mi sembrava che finalmente le tessere di quel disordinato puzzle interiore che avevo da qualche tempo iniziato a ricomporre cominciassero ad andare a posto.
Valori umani che avevo in un certo senso accantonato, ideali e passioni che avevano alimentato le mie speranze giovanili, il continuo richiamo a concetti che mi riportavano a mio padre e alle delusioni che lo avevano tormentato negli ultimi anni della sua vita, tutto quello che leggevo in quelle pagine mi dava l’impressione che fosse stato scritto esclusivamente per me.
Mi svegliavo al mattino con un’energia nuova, uscivo, prendevo i mezzi per raggiungere il posto di lavoro, mi dedicavo ad esso con la solita diligenza, ma con qualcosa dentro che mi rendeva più tranquilla ed appagata.
Quando tornai in cerca del mio uomo, dopo aver finito il libro, non lo trovai.
Mi guardai intorno smarrita, la grande piazza con i suoi strani abitanti era la stessa di sempre, ambulanti, musicisti, passanti infreddoliti, la solita disordinata e indifferente umanità, ed io sembravo l’unica ad avvertire il vuoto generato dall’assenza della bancarella verde.
Il pittore che vendeva acquarelli qualche metro più avanti doveva essersi accorto del mio turbamento, e mi fece un cenno affinché gli dessi ascolto.
“Se cerchi i libri, in questi giorni ha cambiato lato, devi girare l’angolo. È davanti al Burghi, o giù di lì.”
Ringraziai e mi diressi nella direzione indicata. Per qualche istante avevo temuto di non vederlo più. C’erano parecchie cose di cui volevo parlargli.
Potei farlo dopo poco, davanti al Burghi e alla sua clientela chiassosa, come aveva detto il pittore, chiasso di cui l'omone dalle grandi mani e dalla folta barba sembrava non preoccuparsi minimamente.
Con la sua solita tranquillità ascoltò le mie considerazioni, sorrise del mio stupore nel vedere confermate dalle sue parole idee e sensazioni che risiedevano nelle profondità della mia coscienza, e che lui sembrava aver disincagliato come un pescatore che con pazienza libera l’amo rimasto impigliato tra gli scogli. Ora restava a me tirare la lenza, ma certo il suo aiuto era stato determinante.
Gli parlai anche di mio padre, gli raccontai cose che forse non ero mai riuscita a raccontare neanche a me stessa.
Lui non sembrava né particolarmente lusingato né troppo colpito da quel fiume di parole, sorridendo mi consigliò di lasciarmi indietro rancori e risentimenti, e considerare soltanto se quell’uomo che mi aveva dato la vita mi avesse voluto bene o no, che solo questo contava.
Tutto questo succedeva un giorno qualsiasi in una grande piazza di una grande città, in mezzo al vociare di ragazzi schiamazzanti davanti ad una paninoteca e al flusso continuo di passanti in fila davanti alle vetrine.
Andai via con un nuovo libro, il giorno dopo sarebbe stato l’ultimo in quella città, e molto avevo ancora da scoprire.
Il libro che mi portai a casa e che divorai in pochi giorni riguardava “L’idiota” e le difficili circostanze legate alla sua stesura, e quello che scoprii leggendolo mi avvicinò ulteriormente e in maniera definitiva a quella che ormai consideravo la meta della mia ricerca: la risoluzione di rapporti famigliari da tempo insoluti.
Mi è difficile spiegare esattamente cosa intendo, ma il fatto sorprendente è che da quel momento io mi sentii finalmente in pace con me stessa, e la mia ricerca spasmodica tra le maglie della letteratura ebbe per il momento termine.

All’inizio dell’estate da un normale controllo di screening mammografico risultò che avrei dovuto essere operata al più presto, operazione a cui sarebbero seguiti qualche ciclo di chemio e radioterapia.
La cosa mi colpì come una mattonata in testa, ma non posso dire che in fondo non me la fossi aspettata. La malattia era stata del tutto silente da un punto di vista fisico, ma  di certo non da quello spirituale.
Alla fine dell’autunno dovetti tornare per qualche giorno nella grande città, questa volta per motivi di salute, e feci in modo di tornare nella grande piazza in cerca del mio libraio di strada.
Quante cose avevo da dirgli!
Ma non c’era alcuna bancarella verde davanti al megastore editoriale, e nemmeno girato l’angolo davanti al Burghi. Passai in rassegna tutti gli ambulanti della zona, sapendo che spesso sono costretti a cambiare posizione, ma del mio amico dalla folta barba non c’era traccia.
Finalmente trovai però il banchetto del pittore con i suoi acquarelli, a cui chiesi subito notizie della bancarella verde.
Lui mi guardò sconsolato, scrollando la testa, e fece un largo gesto con le braccia.
Pensai che volesse dirmi semplicemente che non sapeva dove fosse, e restai impietrita quando invece lo sentii pronunciare queste parole:
“Ha avuto una violenta emorragia cerebrale, alla fine dell’estate. Speravamo tutti che si riprendesse, non credevamo… È morto a novembre, che tristezza, una gran persona… Pensa, mi aveva detto di aver appena finito di scrivere un libro, diceva che lo avevano ispirato certi discorsi fatti con una cliente sulla magia della letteratura, o qualcosa del genere. Diceva che era il libro che aveva da sempre voluto scrivere e che solo ora aveva trovato lo spunto giusto.”
Non ricordo se ringraziai il pittore, prima di raggiungere turbata la fermata del tram.
Volevo raggiungere al più presto il mio monolocale di periferia,  chiudermi la porta alle spalle e buttarmi sul divano.
Non riuscivo a non pensare a quanto la vita fosse strana, e si fosse divertita ad intrecciare il mio destino con quello di uno sconosciuto filosofo ambulante.
Pensavo alla morte, che si era presa il mio amico lasciandogli giusto il tempo di finire il suo libro, e che aveva lambito me in modo subdolo per poi lasciarmi andare nella speranza di avere ancora qualche margine di vantaggio. E pensavo alla Vita, celebrata dai saggi, che mi aveva consentito in un momento delicato di conoscere una persona straordinaria, grazie alla quale ero riuscita a far quadrare i miei, pur parziali, conti.
Pensavo a tutto questo mentre dal finestrino del tram guardavo scorrere la vita di quella grigia, fredda, frenetica, strepitosa grande città, e mi accorsi che un leggero velo di lacrime aveva cominciato ad offuscarmi la vista.

Dicembre 2017, dedicato a Giuseppe D’Ambrosio Angelillo.







domenica 2 giugno 2019

LA STORIA DELL'ULTIMO LIBRO

La storia dell’ultimo libro
Questa che vogliamo raccontarvi è la storia di come si scrive
l’ultimo libro della vita di uno scrittore prezioso e appassionato,
prima di tutto l’idea di esso covò a lungo nel suo cuore, si può dire che vi prese casa,
o si annidò, se preferite, per molti anni,
e lui stette senza mai osare porre mano alla penna e alla carta per tracciare la prima parola,
perché ne aveva quasi pudore e timidezza, come un innamorato, e ne parlava a malapena,
e solamente insistendo, perché incominciasse a dirne qualcosa,
ma lui trovava tante scuse, tanti dubbi, tanti ripensamenti, qualche sfumato timore,
come se fosse tutto più grande di lui, sembrava che un vago,
sotterraneo fantasma lo prendesse nell’animo al solo pensiero,
ma diceva che prima o poi occorreva giungere al cominciamento,
e poi in un autunno, avvolto nella nebbia, e grigio come la cenere,
lei, la sua compagna nella poesia e nella scrittura,
se ne andò dove non avrebbe più potuto raggiungerla, se non con il sogno, e il pensiero,
perché il ricordo forse era troppo poco, e così dopo molti anni accadde qualcosa…
di notte, in profonda solitudine, nella chiusura ermetica del suo inespugnabile bunker,
sulla vetta di una casa-torre ai bordi di quella loro Acqua,
lungo le Scogliere a precipizio del Naviglio Grande, venne sfiorato dall’ala dell’angelo,
e prese la decisione, precipitò dal suo cuore alla sua mano
la prima parola di quello che non sapeva essere il suo ultimo libro…
E fu così che quello che era stato un annoso indugiare, divenne improvvisamente un’urgenza,
che non voleva più sentire nessuna scusa e nessun rimando,
questo doveva accadere, con la durezza di un imperativo,
e lui era cambiato, di colpo, non ammetteva di poter perdere neanche un minuto,
verso la fine, quale fine, si era chiuso alle parole, non rispondeva più,
e la sua bella, cadenzata voce era scomparsa, era diventato strano,
come lo è uno sconosciuto, quasi di malumore,
lui che era l’allegrezza fatta persona, se ne stava in una rigida e severa clausura,
gli portavano perfino da mangiare per non staccarsi dal tavolo della scrittura,
come alla luce di un lampo aveva percepito la natura del tempo di quella sua ultima estate,
si era insinuato dentro di lui il pensiero di dover lasciare, di dover smettere,
di dover abbandonare, di dover perdere, di dover smarrire la dimensione della vita sulla terra,
e di dover relinquere… verbo della inquietudine, perché il Relitto è una immagine della paura...
La cara bella scrittura se l’era preso fin da bambino,
quando si esercitava con le penne e i quaderni a trasportare i sogni,
le fantasie, e la realtà delle giornate, sulla carta, questo era il suo grande e segreto gioco,
che anno dopo anno era diventato la sua stessa ragione e vocazione di vita,
il suo richiamo, a cui non aveva mai, in nessuna frangenza, anche la più dura,
opposto un diniego, lui vi era chiamato,
come un monaco lo è alla conoscenza del mistero del suo dio,
lui era Joseph K., il frate certosino senza tonsura e in abiti di panno blu da marinaio vagabondo,
che veleggiava con venti misteriosi in poppa,
lungo le Scogliere a precipizio del Naviglio Grande…
E Joseph K., prima dell’Ultimo, ne aveva scritti forse centinaia di romanzi pieni di anima,
con la sua potente generosità, con la sua speciale scioltezza, e in piena velocità,
senza soste, senza pause e senza lunghe anonime fermate,
come quella notte, quando pieno di sacra energia nei polpacci,
aveva raggiunto a piedi la città di Pavia,
partendo dalla antichissima Chiesa di Santa Maria detta La Rossa,
e così con quel fuoco nelle ossa aveva passato i suoi anni di ricca ispirazione,
riempiendo di fitta e aguzza scrittura i suoi grandi quaderni, fino…
fino a quell’appuntamento che aveva posto un sigillo e una cifra alla sua bella vita.


Gli Specchi
Pensiero e Ricordo di TH.
Il libro finale o il quadro finale di un artista è un mistero nella sua formazione
e nella sua motivazione, e sopra tutto nel suo senso, lungo un arco di tempo,
che se inteso come circolare, cioè sacro, rappresenta la chiusura di una porta sul visibile
che apre all’invisibilità, al non saputo e all’inviolato,
così tu avevi sfiorato con la tua mano quella chiave
e l’avevi fatta girare nella serratura del non sondabile…
Lungo quella stagione, in quel regno solare di implacabile calore,
mi sembrava di avere difronte uno sconosciuto, sfuggente,
anche se eri tu, ma dalle sembianze di creatura obliqua,
come pronta a una trasformazione, non lo avevo capito cosa ti stava accadendo,
dove ti stavi preparando ad andare, con un grande libro sotto le braccia,
ma ti ricordo in una mattina, in cui un sole nero era quasi giunto allo zenit,
eri, lì, sulla soglia di una casa, con una maglietta a righe azzurre, da uomo di mare,
e pantaloni stretti in vita da una corda,
canapo marino che ti avrebbe legato ancora per poco,
eri, lì, sorridente in modo inconsueto,
allusivo a qualcosa che non avrei mai potuto nemmeno immaginare,
io non sapevo già più niente di te, era troppo tardi,
il tempo si era messo a correre dentro un altro tempo immateriale,
e tu ormai chi eri, e chi sopra tutto stavi diventando, senza dire niente, in assoluto silenzio…
Ricordi di L., raccolti dalla sua voce, una mattina
È attraverso il cancello di grandi occhi azzurri, completamente spalancati,
che entriamo nella lettura e nella visione di quello che fu quell’ultimo anno,
l’anno dell’opera, e così Liisi rivede e risente,
in quel che le rimase impresso di come si snodarono le cose,
la sua maniera è essenziale, lo fa con dei fili, che entreranno a tessere la trama:
“La sua memoria era molto potente, e quel libro se ne stava già tutto nella sua testa,
se ne stava lì forse da anni, moltissimi anni, completamente chiuso,
e poi di colpo, lo cominciò proprio in un giorno non qualunque,
perché scelse, secondo la sua Cabala, il Primo di Gennaio,
e lo fece nel segreto più profondo, e nel pieno rispetto della scaramanzia”...
Quel libro fatale era tutto contenuto, come un Seme in un Athanor di puro cristallo,
protetto nel pieno segreto, e la sua distillazione a goccia goccia ebbe inizio in un giorno,
il Primo del mese di Gennaio, Caput Anni,
giorno scelto per imprimere ancora più senso e più forza
all’atto dell’incominciamento nel rispetto e nella coerenza con la sua scaramanzia,
un numero dispari di grandissima potenza, e un mese Januarius,
caro al dio Giano, signore e protettore di tutti gli Inizi, e di tutte le Porte,
perché una porta si era spalancata,
e quando ebbe avvio quel flusso di scrittura non ebbe più fine,
non conobbe interruzione, sino alle soglie dell’Equinozio di quella estate prima dell’Addio...
“Non tornava più a casa, e non faceva più niente per non disperdere la sua Forza di creazione,
non incontrava più nessuno, non sprecava nemmeno più la sua voce,
e non rispondeva a nessuna chiamata, a nessun appello,
non scriveva nient’altro, non andava più nemmeno a vendere i libri,
così ci aveva lasciati senza più niente, ma noi lo capivamo e non ci lamentavamo mai,
anche se la fame la sentivamo, ma non dicevamo niente,
era preoccupatissimo, ansioso, scontroso, cupo, preso da un’urgenza, da una frenesia,
da una antica mania, era preso fino nel fondo delle ossa,
noi non lo vedevamo quasi più, se ne stava da solo tutto il giorno e anche di notte
nella sua casa di via Palmieri a scrivere, qualche volta alla sera, se tornava da noi,
prendeva a raccontarci delle fiabe, delle favole, dei racconti,
dei ricordi della vita dei contadini della terra di Puglia,
noi pensavamo che lo facesse per trovare un fiato, un respiro da quella cattura,
da quella implacabile scrittura, forse cercava un moto di ritorno, alla sua infanzia,
forse aveva quasi paura, e per allontanarsi con il pensiero da quel libro, cercava la Fiaba...”
Come una creatura ormai invasata dal Daimon,
era entrato con passo deciso nella danza di Dioniso,
nella sarabanda di quella vita indistruttibile sacra al dio,
che lo avrebbe reclamato in sacrificio, perché quel “non” dinanzi a ogni richiamo,
suonava come un allarme, senza equivoco,
del suo essere ormai fissato con chiodi non estraibili alla opera della scrittura,
si era votato, cieco e sordo, come chi è aggiogato, stretto e costretto dal cappio di Ananke,
ed essendo fatto di carne, e forse nella carne soffrendo la strangolatura,
cercava il respiro nelle fiabe della infanzia, nel reame della libertà, incantato,
cercava un altro incanto, che lo sottraesse al sortilegio, al legamento,
oppure, chiuso nel suo Bunker sottomarino, desiderava riemergere,
alla superficie, per fame di aria e per fame di luce...
e fino all’immersione definitiva, non aprì quasi bocca su quanto stava vivendo,
con quegli occhi gonfi... e non sapremo mai per quante e quali lacrime compresse
nelle loro profondità quegli occhi ormai stessero quasi per scoppiare ...
Questa è anche la storia di qualcosa di rimasto di noi in lui e in noi di tutto il suo cuore,
noi che stiamo ancora cercando il senso di questo romanzo finale, che lo stiamo esplorando,
ascoltando e riascoltando le tue parole di quella dispari stagione
in cui qualcosa di te si mise caparbiamente all’opera, dopo anni di esitazione,
e siamo noi che abbiamo bisogno di ricordi,
come una bussola di orientamento nel mare della tempesta,
come un astrolabio che sappia catturare le stelle e leggerne i percorsi,
le scie nel cielo notturno, le tracce mnestiche, come tracce di scrittura,
perché sono ciò che resta rispetto all’atto dell’abbandono,
l’insondabile del tuo pensiero rispetto alla tua creazione e alla rete
che ti ha fatto prigioniero e che ti ha preso e stretto con il suo Nodo.
Quel Cappio, lo avresti chiamato, e ci avresti consentito di chiamarlo con il suo vero nome,
la più antica delle dee, Ananke, la potenza della Necessità,
a cui non ti sei sottratto, nell’avvertimento del fuoco oscuro di quella estate bruciante,
che al modo di Ade, privo di volto, ti ha sfiorato la pelle.
E poi è scesa la notte, seduti a un tavolo diamo le carte
e l’ultima a uscire è la lama dell’Appeso, siamo sorpresi…
il volto del giovane non esprime nessuna sofferenza, ma un’estasi inaspettata,
forse ha intuito come si legge il mondo, come si capovolge la visione…  
Giugno 2019  

Maria Theresa Venezia

"ALDA" 
grande e ultimo romanzo Giuseppe D'Ambrosio Angelillo
2 volumi, 1500 pagine circa




mercoledì 30 agosto 2017

ricordati del bene ricevuto
non pensare sempre a quelle male parole
che non t'hanno mai portato niente,
il male ti ruba e tu non te ne accorgi
il bene ti aiuta 
senza mai dirti niente
e tu lo stesso manco te ne accorgi.
forse sono proprio questi i motivi
che neanche all'alba pensi
al miracolo celeste
che t'ha generato.
non pensi a niente,
e magari non ti svegli neanche prima delle 8
per capire il canto di chi prega
e ringrazia il destino
per le meraviglie che gli ha messo intorno.
del pane che il padre suo
gli ha procurato
fin dal primo giorno che è venuto al mondo.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
Claretta Frau Sempre un piacere leggerti😃
Lodovica Gobbi Bellissima come tutte le tue poesie
Maurizia Zucchetti Grazie. Leggendo ho sentito impercettibilmente e contemporaneamente contrarsi la bocca dello stomaco e la gola e il cuore si è sentito bene. Quando mi succede così quel che ho letto ha trovato un posticino nei miei pensieri.