regala Libri Acquaviva

regala Libri Acquaviva
CHARLES BUKOWSKI, Tubinga, MARC CHAGALL, Milano, ALDA MERINI, Grecia, Utopia, ROMANZI, Acquaviva delle Fonti, RACCONTI CONTADINI, America, POESIE, ERNST BLOCH, Sogni, Gatti Pazzi, Spinoza, FEDOR DOSTOEVSKIJ, ITALIA, New York, FEDERICO FELLINI, Poesie di Natale

domenica 2 giugno 2019

LA STORIA DELL'ULTIMO LIBRO

La storia dell’ultimo libro
Questa che vogliamo raccontarvi è la storia di come si scrive
l’ultimo libro della vita di uno scrittore prezioso e appassionato,
prima di tutto l’idea di esso covò a lungo nel suo cuore, si può dire che vi prese casa,
o si annidò, se preferite, per molti anni,
e lui stette senza mai osare porre mano alla penna e alla carta per tracciare la prima parola,
perché ne aveva quasi pudore e timidezza, come un innamorato, e ne parlava a malapena,
e solamente insistendo, perché incominciasse a dirne qualcosa,
ma lui trovava tante scuse, tanti dubbi, tanti ripensamenti, qualche sfumato timore,
come se fosse tutto più grande di lui, sembrava che un vago,
sotterraneo fantasma lo prendesse nell’animo al solo pensiero,
ma diceva che prima o poi occorreva giungere al cominciamento,
e poi in un autunno, avvolto nella nebbia, e grigio come la cenere,
lei, la sua compagna nella poesia e nella scrittura,
se ne andò dove non avrebbe più potuto raggiungerla, se non con il sogno, e il pensiero,
perché il ricordo forse era troppo poco, e così dopo molti anni accadde qualcosa…
di notte, in profonda solitudine, nella chiusura ermetica del suo inespugnabile bunker,
sulla vetta di una casa-torre ai bordi di quella loro Acqua,
lungo le Scogliere a precipizio del Naviglio Grande, venne sfiorato dall’ala dell’angelo,
e prese la decisione, precipitò dal suo cuore alla sua mano
la prima parola di quello che non sapeva essere il suo ultimo libro…
E fu così che quello che era stato un annoso indugiare, divenne improvvisamente un’urgenza,
che non voleva più sentire nessuna scusa e nessun rimando,
questo doveva accadere, con la durezza di un imperativo,
e lui era cambiato, di colpo, non ammetteva di poter perdere neanche un minuto,
verso la fine, quale fine, si era chiuso alle parole, non rispondeva più,
e la sua bella, cadenzata voce era scomparsa, era diventato strano,
come lo è uno sconosciuto, quasi di malumore,
lui che era l’allegrezza fatta persona, se ne stava in una rigida e severa clausura,
gli portavano perfino da mangiare per non staccarsi dal tavolo della scrittura,
come alla luce di un lampo aveva percepito la natura del tempo di quella sua ultima estate,
si era insinuato dentro di lui il pensiero di dover lasciare, di dover smettere,
di dover abbandonare, di dover perdere, di dover smarrire la dimensione della vita sulla terra,
e di dover relinquere… verbo della inquietudine, perché il Relitto è una immagine della paura...
La cara bella scrittura se l’era preso fin da bambino,
quando si esercitava con le penne e i quaderni a trasportare i sogni,
le fantasie, e la realtà delle giornate, sulla carta, questo era il suo grande e segreto gioco,
che anno dopo anno era diventato la sua stessa ragione e vocazione di vita,
il suo richiamo, a cui non aveva mai, in nessuna frangenza, anche la più dura,
opposto un diniego, lui vi era chiamato,
come un monaco lo è alla conoscenza del mistero del suo dio,
lui era Joseph K., il frate certosino senza tonsura e in abiti di panno blu da marinaio vagabondo,
che veleggiava con venti misteriosi in poppa,
lungo le Scogliere a precipizio del Naviglio Grande…
E Joseph K., prima dell’Ultimo, ne aveva scritti forse centinaia di romanzi pieni di anima,
con la sua potente generosità, con la sua speciale scioltezza, e in piena velocità,
senza soste, senza pause e senza lunghe anonime fermate,
come quella notte, quando pieno di sacra energia nei polpacci,
aveva raggiunto a piedi la città di Pavia,
partendo dalla antichissima Chiesa di Santa Maria detta La Rossa,
e così con quel fuoco nelle ossa aveva passato i suoi anni di ricca ispirazione,
riempiendo di fitta e aguzza scrittura i suoi grandi quaderni, fino…
fino a quell’appuntamento che aveva posto un sigillo e una cifra alla sua bella vita.


Gli Specchi
Pensiero e Ricordo di TH.
Il libro finale o il quadro finale di un artista è un mistero nella sua formazione
e nella sua motivazione, e sopra tutto nel suo senso, lungo un arco di tempo,
che se inteso come circolare, cioè sacro, rappresenta la chiusura di una porta sul visibile
che apre all’invisibilità, al non saputo e all’inviolato,
così tu avevi sfiorato con la tua mano quella chiave
e l’avevi fatta girare nella serratura del non sondabile…
Lungo quella stagione, in quel regno solare di implacabile calore,
mi sembrava di avere difronte uno sconosciuto, sfuggente,
anche se eri tu, ma dalle sembianze di creatura obliqua,
come pronta a una trasformazione, non lo avevo capito cosa ti stava accadendo,
dove ti stavi preparando ad andare, con un grande libro sotto le braccia,
ma ti ricordo in una mattina, in cui un sole nero era quasi giunto allo zenit,
eri, lì, sulla soglia di una casa, con una maglietta a righe azzurre, da uomo di mare,
e pantaloni stretti in vita da una corda,
canapo marino che ti avrebbe legato ancora per poco,
eri, lì, sorridente in modo inconsueto,
allusivo a qualcosa che non avrei mai potuto nemmeno immaginare,
io non sapevo già più niente di te, era troppo tardi,
il tempo si era messo a correre dentro un altro tempo immateriale,
e tu ormai chi eri, e chi sopra tutto stavi diventando, senza dire niente, in assoluto silenzio…
Ricordi di L., raccolti dalla sua voce, una mattina
È attraverso il cancello di grandi occhi azzurri, completamente spalancati,
che entriamo nella lettura e nella visione di quello che fu quell’ultimo anno,
l’anno dell’opera, e così Liisi rivede e risente,
in quel che le rimase impresso di come si snodarono le cose,
la sua maniera è essenziale, lo fa con dei fili, che entreranno a tessere la trama:
“La sua memoria era molto potente, e quel libro se ne stava già tutto nella sua testa,
se ne stava lì forse da anni, moltissimi anni, completamente chiuso,
e poi di colpo, lo cominciò proprio in un giorno non qualunque,
perché scelse, secondo la sua Cabala, il Primo di Gennaio,
e lo fece nel segreto più profondo, e nel pieno rispetto della scaramanzia”...
Quel libro fatale era tutto contenuto, come un Seme in un Athanor di puro cristallo,
protetto nel pieno segreto, e la sua distillazione a goccia goccia ebbe inizio in un giorno,
il Primo del mese di Gennaio, Caput Anni,
giorno scelto per imprimere ancora più senso e più forza
all’atto dell’incominciamento nel rispetto e nella coerenza con la sua scaramanzia,
un numero dispari di grandissima potenza, e un mese Januarius,
caro al dio Giano, signore e protettore di tutti gli Inizi, e di tutte le Porte,
perché una porta si era spalancata,
e quando ebbe avvio quel flusso di scrittura non ebbe più fine,
non conobbe interruzione, sino alle soglie dell’Equinozio di quella estate prima dell’Addio...
“Non tornava più a casa, e non faceva più niente per non disperdere la sua Forza di creazione,
non incontrava più nessuno, non sprecava nemmeno più la sua voce,
e non rispondeva a nessuna chiamata, a nessun appello,
non scriveva nient’altro, non andava più nemmeno a vendere i libri,
così ci aveva lasciati senza più niente, ma noi lo capivamo e non ci lamentavamo mai,
anche se la fame la sentivamo, ma non dicevamo niente,
era preoccupatissimo, ansioso, scontroso, cupo, preso da un’urgenza, da una frenesia,
da una antica mania, era preso fino nel fondo delle ossa,
noi non lo vedevamo quasi più, se ne stava da solo tutto il giorno e anche di notte
nella sua casa di via Palmieri a scrivere, qualche volta alla sera, se tornava da noi,
prendeva a raccontarci delle fiabe, delle favole, dei racconti,
dei ricordi della vita dei contadini della terra di Puglia,
noi pensavamo che lo facesse per trovare un fiato, un respiro da quella cattura,
da quella implacabile scrittura, forse cercava un moto di ritorno, alla sua infanzia,
forse aveva quasi paura, e per allontanarsi con il pensiero da quel libro, cercava la Fiaba...”
Come una creatura ormai invasata dal Daimon,
era entrato con passo deciso nella danza di Dioniso,
nella sarabanda di quella vita indistruttibile sacra al dio,
che lo avrebbe reclamato in sacrificio, perché quel “non” dinanzi a ogni richiamo,
suonava come un allarme, senza equivoco,
del suo essere ormai fissato con chiodi non estraibili alla opera della scrittura,
si era votato, cieco e sordo, come chi è aggiogato, stretto e costretto dal cappio di Ananke,
ed essendo fatto di carne, e forse nella carne soffrendo la strangolatura,
cercava il respiro nelle fiabe della infanzia, nel reame della libertà, incantato,
cercava un altro incanto, che lo sottraesse al sortilegio, al legamento,
oppure, chiuso nel suo Bunker sottomarino, desiderava riemergere,
alla superficie, per fame di aria e per fame di luce...
e fino all’immersione definitiva, non aprì quasi bocca su quanto stava vivendo,
con quegli occhi gonfi... e non sapremo mai per quante e quali lacrime compresse
nelle loro profondità quegli occhi ormai stessero quasi per scoppiare ...
Questa è anche la storia di qualcosa di rimasto di noi in lui e in noi di tutto il suo cuore,
noi che stiamo ancora cercando il senso di questo romanzo finale, che lo stiamo esplorando,
ascoltando e riascoltando le tue parole di quella dispari stagione
in cui qualcosa di te si mise caparbiamente all’opera, dopo anni di esitazione,
e siamo noi che abbiamo bisogno di ricordi,
come una bussola di orientamento nel mare della tempesta,
come un astrolabio che sappia catturare le stelle e leggerne i percorsi,
le scie nel cielo notturno, le tracce mnestiche, come tracce di scrittura,
perché sono ciò che resta rispetto all’atto dell’abbandono,
l’insondabile del tuo pensiero rispetto alla tua creazione e alla rete
che ti ha fatto prigioniero e che ti ha preso e stretto con il suo Nodo.
Quel Cappio, lo avresti chiamato, e ci avresti consentito di chiamarlo con il suo vero nome,
la più antica delle dee, Ananke, la potenza della Necessità,
a cui non ti sei sottratto, nell’avvertimento del fuoco oscuro di quella estate bruciante,
che al modo di Ade, privo di volto, ti ha sfiorato la pelle.
E poi è scesa la notte, seduti a un tavolo diamo le carte
e l’ultima a uscire è la lama dell’Appeso, siamo sorpresi…
il volto del giovane non esprime nessuna sofferenza, ma un’estasi inaspettata,
forse ha intuito come si legge il mondo, come si capovolge la visione…  
Giugno 2019  

Maria Theresa Venezia

Nessun commento: