Me ne andavo come uno sperduto in un palazzone tutto buio e pericolante, un pò sbandato e confuso, non ci capivo più niente di nulla, nè del bene nè del male, nè dell'alto nè del basso. Ero diventato quasi uno scervellato, svuotato pure della mia vecchia e inesauribile energia. Mi adiravo per tutto, e ne ignoravo perfino il motivo, anzi forse lo capivo benissimo: avevo paura di tutto e non ero sicuro più di niente. Comunque quel palazzone era la notte fatta persona, oscura, tetra, piena zeppa di insidie. Sentivo odore di alcool, e pensai che forse dovevo essere in un luogo di perdizione, di deboscia e di malaffare. Salivo le scale, piano dopo piano, e il lezzo dell'abisso aumentava sempre di più.
"Forse farei meglio ad accendere un lumino ora", pensai. "Posso cadere da un momento all'altro e nemmeno saprei dove".
Così feci, accesi un lumino (avevo solo un fiammifero e non potevo assolutamente fallire, ma la sorte mi fu favorevole e ci riuscii), e vidi finalmente a un tavolo quattro uomini misteriosi giocare a carte.
"Scusate, uomini, ma io cerco i miei amici che forse come voi se ne stanno a giocare a carte da qualche parte in questo oscuro palazzo", dissi loro.
"Siamo noi i tuoi amici, pirla", dissero quelli e scoppiarono a ridere.
Li guardai bene e li riconobbi, erano proprio loro, i miei cari, maledetti, insostituibili amici e così anch'io scoppiai a ridere per il terrore attraversato per tutta la notte e finalmente d'incanto scomparso di botto.
Eppure non ero ubriaco e neppure un fesso, avevo avuto semplicemente il panico assurdo di essere rimasto solo in quel terribile palazzo oscuro che se ne diventa a volte la tua città quando inspiegabilmente a volte pensi che non hai più nessuno amico vicino a te.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
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