gli inglesi cominciano
sempre le poesie da un qui,
ciò sarebbe davvero bello
se si trattasse di un pranzo di Pasqua,
di un compleanno di una pin-up
o di qualcosa che riguarda
una completa disfatta
di un esercito di diavoli all'attacco.
ma le cose non sempre vanno così
e gli inglesi lo sanno benissimo
e allora il loro qui
e spesso disseminato di silenzi lugubri,
di veleni dissimulati,
di visioni gotiche colorate tassativamente di rosso.
il qui è piantato come un chiodo
nello zoccolo di un cavallo
che dubita di partire al galoppo
verso una qualche gioia sfrenata,
la sua criniera è malata di cenere
e il tempo, come se non bastasse,
promette neve.
ma per noi italiani il qui
ricorda troppo una vita
che se ne frega di un pò di tutto.
sarà per questo
che non abbiamo mai pensato
nemmeno a conquistare il mondo
e a coltivare invece gli aranci
che servono a qualche sciame di api,
intime amiche nostre,
a farsi miele, ronzii petulanti
e risse di vicinato
senza mai alcun motivo plausibile.
fatto questo
il qui diventa automaticamente un letto,
dove riposarsi di così tanta fitta fatica.
in Italia si arriva perfino a insinuare
che il qui serve a Dio
a piantar casa addirittura al paradiso,
questo stranamente
i pallidi poeti inglesi
tendono a escluderlo
con un'irritata alzata di naso.
sarà per siffatto motivo
che gli angeli
degli artisti italiani
se ne fottono grandemente
perfino di imparare a parlare inglese
e preferiscono di gran lunga
esprimersi
in quel qualsiasi dialetto di paese
di vecchi pazzi buzzurri contadini,
dove sempre si trova quel vino
e quel pane
che una volta servì perfino a Gesù
per fare quel suo famoso comizio.
giuseppe d'ambrosio angelillo
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