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domenica 3 agosto 2014

DOSTOEVSKIJ




DOSTOEVSKIJ

  Me ne stavo nel cortile di un palazzo e un tipo sbraitava contro di me:
   “Sei uno scrittore? E allora sei un servo! Un servo, un cameriere del bene, che fa bene solo al padrone che ti dà da mangiare!”
   “Non sono che il servo di me stesso e non ho padroni all’infuori di me!”, dicevo io.
   “Belle frasette, belle parole a effetto. Ecco di cosa siete capaci voi scrittori! Ma non siete altro che servi, come ben dice Dostoevskij pure da qualche parte, penso proprio nei Fratelli Karamazov”.
   In quel mentre scende dal palazzo proprio Dostoevskij, seduto su una sedia a rotelle.
   Io allora vado a prenderlo, e lo porto nella ressa del cortile.
   “Hai detto Dostoevskij? Vieni un po’ qua, bel tomo”, dico io.
   C’era tanta gente nel cortile, richiamata dalla rissa. E fu un po’ difficile per me farmi largo nella folla e finalmente arrivare al tomo.
   Appena lo vedo a fatica tra la folla gli dico:
   “Hai detto Dostoevskij? Vieni un po’ qua. Vedi un po’ qui chi c’è”.
   Il tomo mi guarda sprezzante, ma si accorge di Dostoevskij e cambia subito atteggiamento.
   “È lui?”, mi chiede con lo sguardo angosciato.
   “Proprio lui”, gli confermo.
   Allora fa una cosa che assolutamente non mi aspettavo, si butta a terra davanti a Dostoevskij e gli bacia la mano.
   “Perdono, Maestro, perdono. No. No. Gli scrittori non sono dei servi. Ma sono dei profeti di libertà. Perdono, perdono”, gli dice piagnucolando.
   Dostoevskij si schermisce, ride.
   Poi chiama a sé il tomo, un uomo brutale e tarchiato, calvo, pesante, cattivo e gli dice in confidenza:
   “Ti ringrazio molto della rappresentazione”.
   Poi spinto da me andiamo via.
   Dobbiamo salire una scala, come di una fermata di metrò.
   Un uomo lo prende in spalla e io porto su la sedia a rotelle.
   Poi andiamo nell’atrio di un palazzo, che sembra un ospedale. Tutti aspettano una visita.
   Gli infermieri dicono:
   “È inutile che vi ficchiate dentro di contrabbando, tanto gli ambulatori vi rimandano indietro”.
   Allora ci mettiamo ad aspettare tutti nell’atrio.
   Così dico a Dostoevskij:
   “Avevo il sospetto  che tu abitavi nel mio stesso palazzo. Perché ogni tanto veniva qualcuno da me e mi chiamava: “Dostoevskij, Dostoevskij”, data la mia vaga somiglianza con te. Ma poi andavano via a cercare altrove. Poi è venuta una donna una volta e mi ha raccontato la sua triste storia. “Devo andare, il mio innamorato mi vuole perché mi vuole uccidere, devo andare, devo proprio andare ora”, e io ho pensato: “Non è me che cercava, cercava Dostoevskij” e ora ti vedo qui. Sono così contento di incontrarti ancora”.
   Lui sorrideva.
   C’erano altri con me.
   “Solo lui ha potuto pensare che qualche volta qualcuno ama e odia la stessa persona nello stesso momento. L’amore e l’odio sono dei sentimenti così contradditori”, dico io.
   “Sono venuto a dire ai tuoi colleghi invidiosi che tu hai la mia protezione e il mio benvolere, e che ti diano lo spazio che ti meriti”, dice lui.
   “Grazie, Fedor”, dico io. “Ma non voglio la gloria, né la fama, voglio solo un po’ di rispetto”.
   “Lo so”, dice lui e sorride.
   Poi qualcuno mi chiama, devo andare a mettere a posto una camera là vicino.
   Sul letto ci sono molti nichelini e centesimi, li metto a posto. Poi aggiusto le lenzuola, e sono tante, mi accorgo che un lenzuolo colorato me l’ha regalato Alda.

   Oh, cara Alda.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO

da "KAFKA" storielle minime, Acquaviva 2014

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