DOSTOEVSKIJ
Me ne stavo nel cortile di un palazzo e un
tipo sbraitava contro di me:
“Sei uno scrittore? E allora sei un servo!
Un servo, un cameriere del bene, che fa bene solo al padrone che ti dà da
mangiare!”
“Non sono che il servo di me stesso e non ho
padroni all’infuori di me!”, dicevo io.
“Belle frasette, belle parole a effetto.
Ecco di cosa siete capaci voi scrittori! Ma non siete altro che servi, come ben
dice Dostoevskij pure da qualche parte, penso proprio nei Fratelli Karamazov”.
In quel mentre scende dal palazzo proprio
Dostoevskij, seduto su una sedia a rotelle.
Io
allora vado a prenderlo, e lo porto nella ressa del cortile.
“Hai detto Dostoevskij? Vieni un po’ qua,
bel tomo”, dico io.
C’era tanta gente nel cortile, richiamata
dalla rissa. E fu un po’ difficile per me farmi largo nella folla e finalmente
arrivare al tomo.
Appena lo vedo a fatica tra la folla gli
dico:
“Hai detto Dostoevskij? Vieni un po’ qua.
Vedi un po’ qui chi c’è”.
Il tomo mi guarda sprezzante, ma si accorge
di Dostoevskij e cambia subito atteggiamento.
“È lui?”, mi chiede con lo sguardo
angosciato.
“Proprio lui”, gli confermo.
Allora fa una cosa che assolutamente non mi
aspettavo, si butta a terra davanti a Dostoevskij e gli bacia la mano.
“Perdono, Maestro, perdono. No. No. Gli
scrittori non sono dei servi. Ma sono dei profeti di libertà. Perdono,
perdono”, gli dice piagnucolando.
Dostoevskij si schermisce, ride.
Poi chiama a sé il tomo, un uomo brutale e
tarchiato, calvo, pesante, cattivo e gli dice in confidenza:
“Ti ringrazio molto della rappresentazione”.
Poi spinto da me andiamo via.
Dobbiamo salire una scala, come di una
fermata di metrò.
Un uomo lo prende in spalla e io porto su la
sedia a rotelle.
Poi andiamo nell’atrio di un palazzo, che
sembra un ospedale. Tutti aspettano una visita.
Gli
infermieri dicono:
“È inutile che vi ficchiate dentro di
contrabbando, tanto gli ambulatori vi rimandano indietro”.
Allora ci mettiamo ad aspettare tutti
nell’atrio.
Così dico a Dostoevskij:
“Avevo il sospetto che tu abitavi nel mio stesso palazzo. Perché
ogni tanto veniva qualcuno da me e mi chiamava: “Dostoevskij, Dostoevskij”,
data la mia vaga somiglianza con te. Ma poi andavano via a cercare altrove. Poi
è venuta una donna una volta e mi ha raccontato la sua triste storia. “Devo
andare, il mio innamorato mi vuole perché mi vuole uccidere, devo andare, devo
proprio andare ora”, e io ho pensato: “Non è me che cercava, cercava
Dostoevskij” e ora ti vedo qui. Sono così contento di incontrarti ancora”.
Lui sorrideva.
C’erano altri con me.
“Solo lui ha potuto pensare che qualche
volta qualcuno ama e odia la stessa persona nello stesso momento. L’amore e
l’odio sono dei sentimenti così contradditori”, dico io.
“Sono venuto a dire ai tuoi colleghi
invidiosi che tu hai la mia protezione e il mio benvolere, e che ti diano lo
spazio che ti meriti”, dice lui.
“Grazie, Fedor”, dico io. “Ma non voglio la
gloria, né la fama, voglio solo un po’ di rispetto”.
“Lo so”, dice lui e sorride.
Poi qualcuno mi chiama, devo andare a
mettere a posto una camera là vicino.
Sul letto ci sono molti nichelini e
centesimi, li metto a posto. Poi aggiusto le lenzuola, e sono tante, mi accorgo
che un lenzuolo colorato me l’ha regalato Alda.
Oh, cara Alda.
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
da "KAFKA" storielle minime, Acquaviva 2014
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