Noi ragazzini di via Pecci a Acquaviva eravamo devoti di San Giuseppe, e già da giorni prima del 19 marzo ce ne andavamo in giro per i magazzini dei contadini del rione a raccogliere i manucchi, le fascine di sarmenti di vigna che di solito servivano ad accendere i fuochi dei camini, dove ancora a quei tempi (parlo della seconda metà degli anni '60) si cucinavano le cene, unico pranzo dei contadini, perchè, a quei tempi, di mezzogiorno si era ancora tutti nei campi a lavorare.
I contadini ce le davano con facilità e entusiasmo queste fascine, perchè erano in onore di un santo che paganamente faceva festeggiare pure la primavera e la fanova, il falò in suo onore, serviva soprattutto per bruciare l'inverno e tutte le sue paturnie, i geli, gli acciacchi e tutte le varie saette.
Da giorni prima preparavamo pure la cima-cima, una intelaiatura di strascedde, di legni di varie grandezze a formare un tabernacolo portatile, abbastanza grande e anche abbastanza leggero. Lo abbellivamo con carte colorate e stelloni, lunghe striscie di carta sempre multicolori. Poi in alto con una pontina appiccicavano una figura di san Giuseppe, e così di pomeriggio, nel giorno del Santo, con tutte le fascine recuperate ne facevamo un mucchio alla meno peggio, lì davanti alla casa di Caforio, tra via Pecci e via Giulio Cafaro, sommergibilista della prima guerra mondiale, povero, caduto in combattimento in mare, in chissà quale misteriosa circostanza.
E con la cima-cima finalmente improvvisavamo una piccola processione per il rione. Io, Ninuccio Bonaventura, Scoppialimini, Paltainculo (Tascadidietro), Petrosino, Bellezza, Superbone e altri monelli dei dintorni. E ce ne andavamo dicendo in coro:
"Una cosa a san Giuseppe! Una cosa a san Giuseppe!"
Le comari subito si affacciavano sugli usci e si facevano il segno della croce, poi entravano in casa e prendevano la prima cosa che si trovavano sotto mano: pacchi di spaghetti, buste di biscotti, bottiglie di vino, anche bottiglie di olio. Le cioccolate erano particolarmente benvenute. E noi con dei ferri filati appendevamo tutto ai legni del tabernacolo di legno. Tutte queste offerte erano destinate a essere bruciate nel falò come una specie di sacrificio pagano in onore del Santo. Ma, per fortuna c'era un ma, era severamente proibito di impossessarsi di nulla, era peccato grave, tutto apparteneva con sacro vincolo al Santo e a nesun'altro, ma... quando il falò prendeva vigore e le alte fiamme facevano inclinare la cima-cima, allora era permesso dare l'assalto tra le fiamme alle offerte e era possibile arraffare qualcosa, in special modo le cioccolate, molto rare in quei tempi difficili, e allora noi monelli, ma molto devoti, ci buttavamo tra le fiamme, anche a dimostrare parecchio coraggio e perizia a evitare le bruciature, a arraffare qualcosa. Del resto erano solo miseri tentativi, e tranne qualche pacco di pasta, che poi portavamo a casa come un trofeo, non è che riuscissimo, date le vampate e l'alto calore, a prendere granchè.
Dopo che avevamo finito il giro ce ne andavamo al mucchio delle fascine e sistemavamo la cima-cima, bella ricca e tutta addobbata delle offerte tra le più disparate, a un palo fissato in precedenza tra i manucchi e lì lo legavamo con i soliti fili di ferro.
A sera inoltrata finalmente mettevamo fuoco con delle carte accese in più punti alla fanova, e il falò prendeva subito fuoco. Rallentava un pò dopo gli inizi ma poi con gran vigore avvolgeva d'un botto tutte le fascine. Noi aspettavamo con ansia che la cima-cima si inclinasse, anche solo per un pò, ma ce ne voleva sempre parecchio di tempo, interminabile per noi. Poi d'improvviso il palo cedeva e la cima-cima cadeva nelle fiamme, allora noi lesti partivamo all'attacco, sotto le grida allarmate delle donne.
"Attenti che vi bruciate, matti che non siete altro!"
La maggior parte di noi faceva solo il gesto di avventurarsi tra le fiamme, ma poi mogio subito recedeva. Solo qualcuno di noi riusciva a prendere qualcosa, e davvero i più matti e i più coraggiosi. Io solo una volta riuscii a prendere un mezzo pacco di maccheroni, bruciandomi una manica di maglia, ma poi i maccheroni caddero tutti a terra e là rimasero, tra i carboni ardenti e le pietre, messe sotto il falò per non rovinare la strada.
Le fiamme poi, con la stessa velocità con cui avevano preso potere poi lo perdevano, e alla fine non rimanevano d'un botto che rade fiammelle che bruciavano i resti dei bordi del falò che ormai andava spegnendosi.
Alla fine arrivavano le comari con le fraciere, i bracieri dei contadini, a raccattare i carboni ancora accesi delle fascine ormai bruciate del tutto.
Qualcuno rideva, qualcuno si rattristava a quello spettacolo del falò spento, qualcuno recitava delle brevi preghiere.
Qualcuno immancabilmente diceva:
"Cchiù maggior agguan'civene"
("Che sia meglio l'anno che viene")
E con questo simbolicamente si bruciava un altro inverno, e mestamente si ritornava tutti a casa, chi con un pezzo di biscotto bruciato, chi con qualche secchio pieno di carboni ardenti.
Comunque noi monelli eravamo gli ultimi a lasciare il campo. Ci era costata così tanta fatica quel falò di san Giuseppe che quasi non credevamo ai nostri occhi che tutto fosse finito in cenere, e che tutti eravamo rimasti praticamente a mani vuote, e solo per tener fede alle promesse e ai voti che noi stessi ci eravamo imposti e che la tradizione popolare ci aveva insegnato.
Ma questo comunque lo avremmo imparato meglio, ognuno di noi, nel prosieguo sgangherato delle nostre vite all'avventura ma sempre fieramente e nella sostanza parecchio leali...
GIUSEPPE D'AMBROSIO ANGELILLO
http://www.libriacquaviva.org/
http://www.books.google.com/
Nessun commento:
Posta un commento